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venerdì 8 febbraio 2008

Sasha Waltz sotto la catastrofe ed oltre

Al Reggio Emilia Danza (RED), rassegna che rientra nel più vasto carnet di eventi del Reggio Parma Festival, lo scorso maggio è andato in scena al Teatro Valli Gezeiten: uno spettacolo di danza, teatro e musica, per la regia e la coreografia di Sasha Waltz. La coreografa ed il suo ensembe di 16 danzatori affrontano questa volta le trasformazioni della vita, gli eventi di cui siamo in balia ed i loro effetti sulle esistenze, del singolo e del gruppo. D'altronde Sasha Waltz ed i suoi “ospiti” sono essi stessi per definizione e costituzione una compagnia in continua trasformazione: dal 1993, anno della fondazione a Berlino della compagnia con Jochen Sanding, più di 150 danzatori ed artisti, provenienti da 25 diversi paesi, hanno collaborato o preso parto alle creazioni artistiche del gruppo. In una stanza segnata dal tempo e dagli eventi, in cui i muri trasudano memorie tragiche e le porte non riescono più a lasciare fuori la furia del mondo, un gruppo di sopravvissuti è costretto alla condivisione, del dolore, della follia, dell’emergenza, della vita. Ed in quest’intima convivenza i corpi a coppie s’intrecciano e si disfano, s’appoggiano e disequilibrano, sicuri che dall’altra parte ci sarà una coscia, un avambraccio, una pancia a sostenerli. Un contatto accogliente e forte. Tutto si è bloccato nell’attimo del disastro, di qualunque genere sia stato, che li ha sorpresi insieme in quel luogo, con quegli abiti ed in quella disposizione d’animo. Ecco allora i corpi diventare rigidi, le posizioni raggelarsi per il terrore. Ma ci sarà sempre qualcuno che raccoglie, che sostiene, che occuperà il posto e prenderà la forma di qualcun’altro. Il gruppo è preciso e s’incontra con perfetta sincronia, creando giochi di simmetrie divertenti e ironici, momenti in cui il corpo partecipa della scenografia, della musica, degli altri. Dell’affascinante meccanismo, in cui qualcuno entra e qualcuno esce senza mai causare danno agli equilibri, è artefice anche il suono: il violoncello in scena è suonato da James Bush. Danza dunque, e di una grazia e di una forza toccanti, nella prima parte. Con lenti cambi, lente entrate ed uscite, con ritmi armonici e fluidi, per cercare i punti d’appoggio e per sentire fin dove pendere, spingere e salire, senza perdere stabilità. Nella seconda parte la dimensione coreografica viene drasticamente sopita, ed un po’ se ne sente la mancanza. I corpi hanno perso la leggerezza e la fluidità iniziali, il cielo pesa su di loro, l’aria sporca, la terra. I suoni arrivano da ogni parte, distorti, di fondo, sommessi o roboanti, anche da un microfono in proscenio. Ma la scena non perde intensità, anzi, e le catastrofi fanno il loro corso, trascinando con sé lo spazio e chi lo vive. S’assiste a spaccati reali di scenari drammatici, che ognuno affronta nella sua lingua e con i suoi modi: epidemie, terremoti, persino incendi, veri, verissimi, che divorano le pareti della stanza, i corpi e le menti dei danzatori-attori. L’uomo in balia della natura, senza potere sull’esterno, perde il controllo, del gruppo ed anche di sé. E sorge, si sviluppa ed avviluppa tutto la follia. Tanto da tenere il fiato sospeso, in attesa della prossima reazione, della prossima visione. E’ nei gesti più piccoli, nei tremori e nelle visioni più surreali, al limite del comico, è nelle scene di lotta e d’affetto, nella normalità cui si cerca di rimanere aggrappati. Dei cliché alla “Lost”, delle epopee di sopravvivenza alla “Cast away”, ci si prende gioco con gusto e con cinismo, tutto rimane su di un filo sottile, che lascia sempre cadere un piede nel tragico e nel doloroso e l’altro nell’assurdo, nel ridicolo. Senza sapere dove si va a finire, come se non ci fosse limite…fino alla morte e rinascita della crisalide in nuove forme di vita.

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