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martedì 26 febbraio 2008

MY ARM - HARMFUL DEVICES

Incredibile la forza della mente umana. Incredibile la sua volontà. Ed incredibile, curiosa ed affascinate la storia di un ragazzo che per quasi 30 anni decide di tenere il suo braccio sollevato. Inebriato e soddisfatto dal piacere di poter controllare il proprio corpo. Onanismo e masochismo, il godimento dell'automanipolazione e del dolore. Storia scenicamente fertile. Ma. Ci sono molti ma nello spettacolo dell'Accademia degli Artefatti. Il primo riguarda la scelta di chiamare il progetto artsitico Ab-Uso. Almeno che non si colga il termine nella sua accezione di "mal utilizzato" o "sovra-utilizzato", allora ne convengo che il video, i microfoni, le musiche, i rumori ed in generale tutti i dispositivi scenici sono in questo caso abusati. Il secondo ma riguarda il lavoro interpretativo, in cui la meta-teatralità sfilacciata e la quotidianità sforzata privano il protagonista, se pur credibile a tratti, se pur piacevole a momenti, della forza magnetica necessaria per "tenere la scena". Non che ci si annoi. No, la storia fila, corre ed il video sullo sfondo è in un dialogo ed in un'interazione interessanti con l'attore sul palco. Non ci si annoia ma spesso si perde il gusto. Si perde la magia, si perdono i mondi che vengono aperti e poi richiusi così, senza il tempo di esplorarli. Si usano meccanismi ed effetti che poi cadono in pochi secondi, che in un attimo vengono messi da parte e perdono efficacia. Ecco inizia qualcosa di affascinante; ecco tutto viene riportato con uno strappo alla dimensione colloquiale, casuale dell'inizio. Peccato di nuovo perchè bel racconto e bell'entusiamo, bella energia e originale soggetto. Ma. Regia contemporanea per regia contemporanea allora tanto valeva giocarsela che so magari sul vuoto, sul caso, sull'assenza. Su qualsiasi cosa che non fosse una telecamera a 1 metro da me che riprende delle cose, non caricate di senso, ad 1 metro da me e proiettate in uno schermo ad un metro da me. Come dire, ho tutto lì ma per forza devo costruirci su un'impalcatura complicatissima per ottenere il risultato di avere tutto lì. In parole povere.

sabato 16 febbraio 2008

VOGLIO SCENDERE

Immagino che molti lettori della Gazzetta vadano allo stadio, siano tifosi od almeno s’interessino di calcio. E’ a loro che desidero scrivere i miei pensieri in questo freddo pomeriggio di anticipo di campionato. Con rabbia e chiamando le cose con il loro nome. A loro voglio raccontare del mio viaggio in treno Milano-Parma, un’ora e quarantacinque minuti passati in un vagone nebbioso e devastato in compagnia di una fauna maschile nera e rossa, inconfondibilmente milanista ed insindacabilmente detestabile. Potrei buttarla sul divertente, descrivendo in modo ironico e sagace di come tossicchiavo di fianco ad un giovane coperto di croci celtiche che si faceva una canna abbozzandomi un mezzo sorriso ammiccante, o di come cortesemente declinavo l’invito di un ubriaco di mezza età, che aveva nelle vene sambuca molinari e qualche globulo rosso, ad alzarmi per inneggiare alla squadra ed a non so quale giocatore battendo le mani come facevo all’asilo. Potrei. Ma la questione è molto più seria ed ampia del mio rocambolesco viaggio in treno e voglia di ridere su questo non ne ho più. Non si tratta dei miei polmoni, delle mie orecchie, della mia tranquillità mentre viaggio (pagando). Si tratta di soldi, molti, si tratta di civiltà, nulla, di legalità, impossibile, e di politica, sporca. Così il ragionamento che vi porto, tifosi o ultrà o simpatizzanti, deve cominciare con il pensiero di Marco Travaglio, che ieri sera ospite del Teatro Due in due ore di limpido e geniale eloquio, ha più volte sottolineato come in Itala il livello di sopportazione, la soglia di accettazione di soprusi, angherie, illegalità e rifiuti solidi urbani si sia negli ultimi anni drasticamente abbassata. E’ vero. Infatti siamo costretti ad accettare che la città sia blindata una volta a settimana, a costi altissimi in termini di denaro pubblico e civiltà. La domanda è: perché io, in quanto cittadina, contribuente, passeggera, utente o quant’altro, devo non solo accettare ma persino finanziare questa situazione? Se io andando a teatro a Milano mi accendessi una sigaretta nel vagone credo che giustamente sarei multata. Se scendessi con altri diciamo 40 amici in centrale non credo che troverei dei pullman speciali per raggiungere il Piccolo, tanto meno offerti dallo stato. Non credo neanche che alcune strade sarebbero pedonalizzate per l’occasione. Non credo che potrei insultare le persone in stazione, gettare improperi contro razze, città, paesi, nazioni, professioni e altri attori. No. Non potrei, non posso. Allora, perché accade che, nell’ordine, una mandria di gente incivile fumi sul mio treno (io ho pagato, loro no), che una mandria di gente incivile arrivi allo stadio con un pullman privato (io salgo sull’autobus e pago, loro no), che una mandria di gente incivile devi il traffico di alcune importanti strade cittadine, che una mandria di gente incivile insulti il cinese a fianco a me, che una mandria di gente incivile demolisca il soffitto del treno, urlando che la moglie di Raciti è milionaria, quando è tragicamente vedova? PERCHE’ QUESTA MASSA ANIMALESCA, DEPRAVATA E COMPLETAMENTE PRIVA DI UNA MENTE PENSANTE E’ TUTELATA, SOVVENZIONATA, AGEVOLATA NELL’ESPRESSIONE ODIOSA DELLA PROPRIA IGNORANZA ED INCIVILTA’? PERCHE’ IN TUTTO QUESTO IN PIU’ DEVONO ESSERE SCHIACCIATI I MIEI DIRITTI E QUELLI DI TUTTI GLI ALTRI CITTADINI? PERCHE’ ALLO STADIO SUCCEDE DI TUTTO, SI DICE DI TUTTO, ENTRA DI TUTTO, MUOIONO LE PERSONE, IL SISTEMA E’ AL COLLASSO, LA CORRUZIONE DILAGA E NON C’E’ UN POLITICO CHE ABBIA IL CORAGGIO E LA CORENZA DI DIRE BASTA? PERCHE’, ANCORA PIU’ GRAVE, NON C’E’ UN CITTADINO CHE SI ALZI E DICA BASTA MENTRE VENGONO CALPESTATI I SUOI DIRITTI FONDAMENTALI, LE LEGGI FONDAMENTALI DEL VIVERE IN SOCIETA’ E QUELLE AMMINISTRATIVE, PENALI E PERSINO COSTITUZIONALI? Ecco io oggi sento che come cittadina devo fare qualcosa. Scrivere a voi e invitarvi a riflettere. La risposta alle domande che mi sono posta è banale. Tristemente banale come tutte le risposte cruciali in questo paese amaramente abbandonato alla sopportazione, alla rinuncia, all’indolenza. La risposta sono i soldi. I soldi delle grandi aziende che possiedono le squadre, i soldi dell’ex- e forse futuro (Dio non voglia) presidente del consiglio, ma anche di molti altri industriali italiani e non. I soldi ovviamente. E così quello che rimane a me ed ai poveracci che come me che salgono sui treni sereni e ne scendono imbufaliti, è gridare VOGLIO SCENDERE. Che è anche il nome del blog di Marco Travaglio, che dell’Italia purtroppo ha capito quasi tutto.

martedì 12 febbraio 2008

ARTEFATTI ARTIFICI MALEFICI MALEFATTE

Da quando dire cose sconnesse, senza un filo logico, sensa un senso, senza un orizzonte vago di significato è contemporaneo, illuminante, teatralmente interessante e importante? Da mai. Infatti non lo è. E i cinque pezzi facili di Martin Crimp scenicamente interpretati da Arcuri con gli attori dell'Accademia degli Artefatti sono un lampante e "luminoso" esempio di cosa un testo teatrale non riesca a fare pur volendolo, fortissimamente volendolo. E di come un attore, se pur bravo, possa farsi trascinare da un testo in una non interpretazione. Una lunga, interminabile, sequenza di tic e faccette. Non so voi, ma io quando sono in imbarazzo, perplessa, sconcertata o in attesa non scuoto la testa, mi gratto, mi muovo sulla sedia in continuazione. La non comunicazione, l'incomunicabilità sono terreno fertile se attraversano orizzonti inattesi, se portate al parossismo, al tragico o al comico, non se lasciatate macerare nelle ripetizione e nella sospensione. Uno spettacolo dove tutto rimane in luce, sempre, dove non si crea mai una zona d'ombra, di senso certo non di luogo, che potrebbe creare la fascinazione perseguita. Un spettacolo in cui quando c'è silenzio speri solo che uno dei 3 attori dica qualcosa e quando poi finalmente qualcuno attacca con la sua battutta speri solo che finisca presto e si ritorni al meritato silenzio. Peccato perchè la capacità interpretativa e la presenza di Arcuri e Croci avevano il loro fascino. Peccato perchè Angius aveva un bel ruolo tra i due. Peccato perchè i premi Ubu di solito sono abbastanza consistenti. Peccato.

venerdì 8 febbraio 2008

PIU' PORCI DELPORCO

Pirandello avrebbe, credo, amato l’allestimento del suo racconto e testo teatrale La Sagra del Signore della Nave, realizzato da Vincenzo Pirrotta, andato in scena al Teatro Due lo scorso novembre. Lo avrebbe amato per due motivi, gli stessi che hanno entusiasmato il pubblico in sala: perché spettacolo corale fatto d’individualità forti e carismatiche, e perché capace di creare una dimensione grottesca, onirica e primordiale che non tradisce ma anzi esalta il senso del testo. Ai piedi di una chiesa, più che altro una piramide azteca; in una piazzetta di paese nell’agrigentino, spazio sacro, tribale, totemico, decorato da ex-voto, feticci di stracci e corda; in un tempo indefinito, che ha dettagli novecenteschi, medioevali ed ancora primordiali; in una Sicilia in cui il dialetto è lingua, espressione intensa dello spirito del suo popolo…in tutto questo si muovono, cantano, danzano, dialogano i personaggi surreali diretti da Pirrotta. Triviali e clowneschi, sguaiatamente popolani, dandy o arricchiti, macellai, marinai, medici, avvocati e notai, allevatori, ciascuno a suo modo si confronta con domande elevate sulla natura animale e su quella umana, sul sacro e sul profano, sul valore dell’immolazione. Al centro, alternativamente, il maiale, vittima della scanna novembrina ed il Cristo, Signore della Nave, sacrificatosi anch’egli per pascere l’umanità tutta: il sacro e il profano che si sovrappongono, la bestialità e la natura animale dell’uomo che emergono con forza nella vita sociale, si scontrano e si ricompongono. Ed è così che in croce si trova inchiodato un suino squartato e scuoiato, ed è così che in processione su una lettiga viene portato un piatto di spaghetti al sugo, così che le litanie di preghiera vengono recitate intorno alla testa del porco. Di questo spettacolo colpisce la cura dei dettagli, la creazione densa e intensa di un immaginario, di uno spazio-tempo in cui tutto, dai costumi eccezionali, alle musiche dal vivo vincitrici degli Olimpici del Teatro 2006, alle scenografie ed alle prove attoriche di valore, contribuisce con coerenza ed efficacia e generare quel senso di eccesso, esasperazione, amplificazione, “effervescenza sociale” a cui i sopiti sensi contemporanei non sono più molto abituati ad assistere, per lo meno dal vivo. Visioni e personaggi che sono opere di Botero, che sono scene di antica Commedia dell’Arte, che sono composizioni di Bosch, maschere apotropaiche fenice, danze tradizionali…scene di una tribalità che assumma qualunque archetipo accumulabile, intorno a un Cristo “Che più Cristo di così non lo si poteva fare”. Di questo testo, purtroppo raramente frequentato, colpisce e affascina l’incredibile capacità di sollevare questioni e domande di portata millenaria ed universale, senza mai esplicitarle e tradirle con banale moralizzazione. Dalla discussione sulla superiorità dell’uomo sul maiale, sul proprium umano e su quello animale, Pirandello porta la riflessione a toccare temi come l’opulenza della società borghese, la bestialità umana davanti ai propri bisogni primari, la distinzione a volte labile tra sacro e profano (diade, secondo Durckheim, all’origine del concetto stesso di religione), il senso e il ruolo universali del capro espiatorio e della vittima sacrificale (cardine delle società e necessario momento di violenza espressa, secondo Renè Girard).
Una vera “lezione d’umanità” a noi “tutti più porci dei porci”, in cui s’apprendono e si riconosco i limiti della nostra specie “imbestiata”, godendone a tratti, più spesso vergognandosene. Si esce dalla sala almeno sollevati dalla consapevolezza che ci sia fra noi qualcuno capace d’arte, d’intelligenza e in grado di riconoscere e mostrarci i falsi dei a cui incoscienti ci prostriamo.

LEGITTIMA DIFESA

Al Teatro Due Fausto Paravidino porta la sua piece sui fatti di Genova 01.

A Genova 01 io non ci sono stata, Paravidino neanche; vi ho assistito però, e lui era in scena, lo scorso febbraio in un’anteprima al Teatro Due, mentre in contemporanea nell’altra sala Pirandello velava di nero la Verità, inconoscibile. Lo spettacolo replicherà per il pubblico dall’1 all’11 marzo, sempre al Teatro Due. Genova 01 è come Così è (se vi pare) un testo sulla Verità, e sulla sua natura, scritto 4 anni fa da Fausto Paravidino (che oggi oltre a recitarvi ne firma anche la direzione), commissionatogli dal Royal Court di Londra e nel tempo modificato di poco, solo aggiornato secondo le novità processuali ormai archiviate. Genova 01 è uno spettacolo su dei fatti, tragici ma dei fatti, su di un evento reale e recente: il G8 svoltosi a Genova nel 2001 e gli accadimenti contestuali di Piazza Alimonda, della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, con i loro numeri, le loro cronache, fotografate, testimoniate, filmate, verbalizzate. Non c’è possibilità di rappresentazione di un evento che fu in sé una rappresentazione, afferma Paravidino, e così la struttura drammatugica, articolata in 4 atti ed un prologo, secondo i canoni classici della tragedia e secondo la scansione temporale degli avvenimenti di Genova, accoglie un’azione prosciugata da qualunque possibile mimesi, trascinante grazie alla sola forza dello sconcerto. Le parole, quasi una raccolta di Ansa, brevi, taglienti, precise, lucide e assolutamente inoppugnabili, sono dette non recitate da attori che non interpretano personaggi ma che si fanno solo tramite, voce e corpo neutro. La scena è scarna, riempita dal potere evocativo del testo; da musiche a volta farsesche a volte intensamente sacrali; da pochi e significativi oggetti che caratterizzano immediatamente chi li porta, li indossa, li brandisce; da un filo di panni stesi, la biancheria dei genovesi messa ad asciugare in aperta contestazione con le direttive che durante quella giornata volevano Genova un luogo di impeccabile arte, ordine, pulizia. L’unico spazio estetico, poetico, è conservato nella sintesi operata sull’enorme mole di materiale di documentazione utilizzato, nella condensazione efficace di informazioni ed immagini (mentali non sceniche). Un teatro civile coraggioso ed emozionante, un teatro epico brechtiano e documentaristico che lascia ed anzi impone al pubblico la consapevolezza, la certezza, che tutto accadde, che nulla fu per finta. “Lo stupore si trasforma in indignazione, l’indignazione in sofferenza, la sofferenza in esigenza di comunicazione, di rappresentazione, di testimonianza” dice Paravidino. Il tono dell’indignazione e della sofferenza emerge spesso, ma la tensione è a tratti alleviata da un’ironia amara, da una critica e da un sarcasmo che portano alla luce lo stupore per le contraddizioni, i paradossi, le evidenti storture dei sistemi giudiziario e politico italiani e soprattutto delle forze armate. Ad ogni spettacolo segue un incontro con i protagonisti degli avvenimenti e della scena politica e mediatica legati a quei fatti a vario titolo e in vario modo; un momento integrante, partecipativo e necessario al precedente scenico, entrambi tesi a scandagliare dei perché diversi dalla ufficiale legittima difesa.

Distorsioni molieriane

Il genio di Moliere non ha tempo: le sue verità sull’uomo e le sue trovate comiche sono rimaste dopo 400 anni cristalline e intatte; secoli di rappresentazioni hanno portato in scena ancora ed ancora i suoi personaggi e le sue situazioni con slanci e dimensioni inaspettati. La regia che Arturo Cirillo firma de Le Intellettuli, sulla brillante riscrittura di Cesare Garboli, vista lo scorso 17 aprile al Teatro Ariosto di Reggio Emilia, è più che una conferma del genio molieriano: ne è un’esaltazione ed insieme un quasi superamento. Specchio dei tempi, passati e presenti, che rimanda un’immagine grottesca ma terribilmente reale (altrimenti non se ne riderebbe così) dei modi affettati e pretenziosi di certi salotti intelligenti e coltivati, in cui un “comunque” può divenire chiave di volta poetica nel nulla e nella miseria intellettuali che lo circondano. Perché “la cultura è l’humus dove fioriscono gli idioti”. Ed a corte (leggi governo, leggi sistema politico) l’idiozia e la stupidità sono decisamente benviste e benvolute; l’ignoranza è perentoriamente interesse di stato. Poco è cambiato, se non nei mezzi. La scena si presenta lucida e contornata da specchi deformanti, o riflettenti una realtà deformata, a terra in corso d’opera si accumulano sputi e residui; qui i personaggi ed i loro straordinari interpreti, tutti bravissimi e tutti intonati, si muovono addobbati di enormi e buffe parrucche, ampi e farseschi abiti, di gesti energici, precisi ed enfatici. La trama è “semplice” e pretestuosa: la schermaglia amorosa, il contrasto tra uomo e donna, donna e società, tra anima e corpo, tra elevazione spirituale e soddisfazione carnale, tra amore ed interesse, tra profondità intellettuale e pura attitudine intellettualoide. Il risultato però è complesso. Gustosamente complesso; con quel sapore ironico, sguaiato, verace molto partenopeo tipico del regista e della sua compagnia. Dalla servetta che con energia riscatta le sue inattitudini linguistiche alla zia/o mitomane, dal marito pusillanime al corteggiatore-poeta impostore, dalla sorella colta a quella da marito, dalla madre despota e letterata al pretendente di buon cuore…tutti concertano, dialogano e monologano con una recitazione sopra le righe ma mai fuori dalle righe, con dei modi paradossali ma mai assurdi, con un dosaggio preciso di elementi farseschi e momenti seri, con dei tempi e ritmi comici quasi geometrici. Di teatro di testo, di parola, classico e narrativo se ne andrebbe a vedere molto di più, e non ci sarebbe bisogno di artifici scenici d’effetto, di laser, schermi, rumori assordanti, di una ricerca e di una sperimentazione ossessive e inoffensive se ci fossero più possibilità di assistere a spettacoli come questo. Peccato solo per uno dei versi: “Le donne di oggi vogliono addirittura scrivere!”

L’AMORE BUONO DEI RAGAZZI DI NAIROBI, DI BALIANI, DI AMREF E DEL TEATRO DELLE BRICIOLE

“Quando la povertà entra dalla porta, l’amore scappa dalla finestra”. Questa scritta compare su una parete di mattoni di una casupola di Nairobi. A raccontarlo è Marco Baliani, regista ed attore italiano, a recitarlo è un giovane africano di Nairobi. E’ la verità. E’ vero che esiste questa scritta, è vero che nella miseria non c’è spazio per nessun sentimento. Ci ricorda che ci sono luoghi nel mondo in cui la vita è completamente un’altra cosa. Luoghi in cui l’Amore è un’altra cosa, in cui il Teatro è un’altra cosa. Nella baraccopoli di Nairobi il Teatro è sollievo, salvezza, è una casa ed una famiglia, una speranza e un mezzo di comunicazione e solidarietà; ma è anche divertimento, socializzazione, espressione e incontro, esattamente come qui da noi. Nella baraccopoli di Nairobi c’è Amore e amore, c’è un Amore Buono e tragicamente uno cattivo: c’è un amore buono protetto, che non uccide, fatto con desiderio, rispetto e Tempo, ma che scappa dalla finestra... E c’è un amore cattivo, che priva delle difese immunitarie, della vita, che è violenza, fretta, prepotenza e portato dalla miseria entra in tutte le case. Anche da noi però quello stesso amore cattivo, se pur con numeri meno elevati, affligge numerosi sieropositivi.
L’Amore Buono – Una Ballata ai Tempi dell’Aids ha girato l’Italia in tour per tutto il mese di dicembre 2006: è uno spettacolo che parla di tutto questo, della vita a Nairobi, degli amori da proteggere, del teatro in una baraccopoli, anch’esso da proteggere, della tragedia della strada per migliaia di ragazzi africani, della speranza possibile per tutti i sieropositivi d’Africa (il 70 % del totale), e del mondo intero. Gli attori, danzatori, cantanti e i creatori del progetto sono ragazzi che vivono quotidianamente contornati dall’amore cattivo, che ne sono vittime direttamente od indirettamente; sono ragazzi che hanno trovato nel teatro, in Marco Baliani e nel progetto di AMREF Italia nella capitale keniota (Sconfiggere l’AIDS con il Teatro), una possibilità di salvezza ed accoglienza. Insieme al Teatro delle Briciole, con la straordinaria partecipazione di Paolo Fresu, musicista italiano di fama mondiale, di Mirto Baliani, anch’egli musicista e autore delle basi musicali dello spettacolo, e di Sonia Peana, violinista che nello spettacolo interpreta le sonorità rap e hip hop con uno strumento del 1803, Baliani ha costruito uno spettacolo con i ragazzi di strada che parli prima di tutto ai ragazzi di strada, che racconti a tutti l’Africa, le sue piaghe, che sono anche le nostre. “Penso che debba essere uno spettacolo per altri ragazzi come loro – ha detto Baliani - per tutti i giovani, perché l'Aids non è un problema che riguarda solo l'Africa. Il messaggio è che l'Aids non è una colpa ma una malattia, e come tale può essere curata e prevenuta”. Lo spettacolo ha debuttato a Roma il 1 dicembre al Teatro Vascello nell’ambito della Giornata Mondiale della lotta all’Aids, ed ha poi proseguito in altre città italiane, Genova, Parma, Prato, Fiorenzuola, Alcamo. Tutti i fondi raccolti sono stati destinati a sostenere i progetti per l’infanzia di AMREF.
Questo straordinario percorso ha portato gli artisti e i ragazzi coinvolti alla realizzazione di uno spettacolo dai toni grotteschi, a volte tragici a volte ironici, con un linguaggio divertito e divertente ma serio, che tratta temi delicati senza ipocrisie. La prevenzione, l’uso dei preservativi, la violenza e la discriminazione sessuale, la sieropositività, le lobbies farmaceutiche che impediscono un’adeguata distribuzione di farmaci anti-Hiv. La conoscenza di questi problemi e dei modi per prevenirli ha trovato nel teatro uno strumento di diffusione formidabile, per la forza delle immagini e di un linguaggio diretto e creativo. Lo spettacolo deve essere pensato soprattutto nel contesto africano. La versione per le scene italiane pur mantenendo la lingua originale, inglese e swaili con sovrattitoli, ha un finale e qualche scene differenti, perché differente è il pubblico a cui si rivolge. Su un palcoscenico africano è forse la prima volta che si vedono delle giovani donne, ragazzine nei canoni di crescita europei, che spiegano al pubblico come indossare un condom, i suoi benefici, la sua necessità. E’ la prima volta che una ragazza scende dal palco, ti racconta la sua storia tragica di morte e sofferenza legata al virus dell’HIV e ti regala infine un profilattico invitandoti ad usarlo alla prima occasione. Questo fanno le giovani attrici dell’Amore Buono: sfidano le ipocrisie, le ignoranze, i falsi miti e le perverse relazioni maschio-femmina da cui sono contornate. Sì, perché se lui estrae un profilattico allora significa che è infetto…se lo estrae lei allora è certamente una prostituta…sai che se fai l’amore con una vergine il virus ti abbandona? Sai che se spruzzi del limone sul pene dopo l’eiaculazione non contrai il virus? E’ contro queste dicerie, contro la fretta, l’incuranza, la rapina, la violenza che questi ragazzi combattono.
Il dramma dell’aids in Africa è la morte degli infetti, la solitudine dei parenti, dei figli, è il dramma e l’aridità di una società senza “cinghia di trasmissione”, senza anziani, senza saggezza, senza nessuno che raggiunga, sano, l’età dell’esperienza, che possa trasmettere tradizioni e saperi. Il percorso artistico ha aiutato i ragazzi a riscoprire un’infanzia negata, a vivere in una nuova famiglia, col sostegno materiale e psicologico degli esperti di AMREF, ad acquisire consapevolezza. Marco Baliani ha scritto un libro sull’esperienza dal titolo L’amore fra i ragazzi di strada di Nairobi in cui racconta il progetto teatrale, esplorando con sincerità e verità l’universo amoroso degli slum, la presenza e il terrore dell’Aids. Dalle pagine risuonano le voci di questi ragazzi e ragazze, ma il libro è anche un viaggio in un’Africa sconosciuta, bella e terribile, di un padre con suo figlio (Mirto): nel nord dell’Uganda tra i bambini soldato, nel sud del Sudan, dentro la Rift Valley. Il libro è pubblicato da Rizzoli, che di Baliani ha edito anche Corpo di Stato. Il delitto Moro (2003), Nel regno di Acilia (2004) e Pinocchio nero (2005), la cronaca del primo spettacolo realizzato con i ragazzi di strada di Nairobi. Proprio il successo europeo del meraviglioso Pinocchio Nero, in tour da due anni, ha dato ulteriore spinta e possibilità di diffusione del progetto sull’aids.
Al momento anche Letizia Quintavalla e Maria Maglietta sono impegnate in Africa con Amref in due nuovi progetti teatrali. Donne e Diritti è seguito da Letizia Quintavalla, che con un gruppo di bambine e adolescenti africane dal giugno scorso lavora al loro recupero ed alla loro espressione artistica. Lo si pensa incentrato sul canto ed i canoni della cultura musicale europea, mentre la drammaturgia dovrebbe essere il frutto della collaborazione con autori kenioti. Le ragazze coinvolte vivono situazioni drammatiche, in un ambiente dove la violenza sessuale è la normalità, dove la condizione della donna è segnata da assoluta mancanza di diritti. Dar voce all’immaginario nero è invece il viaggio nella fiaba africana di Maria Maglietta. L’obiettivo è restituire al pubblico ed all’Africa un pezzo del suo ricchissimo patrimonio narrativo spesso sconosciuto. Centrale sarà l’uso di maschere, di segni e del linguaggio della danza, con la partecipazione al workshop del danzatore di contact Piero Leccese.
La scelta di tutti questi artisti è certo ammirevole. Ma il punto come sempre in questi casi non è la lode, l’apologia, la santificazione. Il punto è capire lo scambio, i motivi professionali ed umani. In un incontro all’Università di Parma in occasione della replica al Teatro al Parco, Marco Baliani ha parlato del perché. Perché un attore e regista affermato decida o senta di dover lasciare tutto e di portarsi in Africa? La risposta può sembrare scontata ma il coraggio di ammetterla non lo è per nulla: nella miseria totale Baliani racconta di aver trovato il contatto con la sua arte, la necessità, l’importanza della sua professionalità artistica, il motivo del suo lavoro. Il Teatro povero in Italia, e in generale in occidente, è sempre stato e sempre rimarrà un teatro ideologico, perché povero un po’ per necessità ma soprattutto un po’ per scelta, in contrasto ad un altro settore di teatro, ricco e borghesemente felice di esserlo. In Africa il teatro è povero e basta. E’ povero perché non c’è altra alcuna, minima possibilità che esista un teatro diverso, per ora. E quando togli tutta la sovrastruttura, lavori sul nucleo, sui fondamenti della tua arte: ne riscopri il bisogno, quello che ne hai tu e quello che ne hanno gli altri e ti rendi capace, con fatica volontà e soddisfazione, di rispondere ad entrambi.
Il prossimo appuntamento con i ragazzi dell’Amore Buono sarà a Nairobi in gennaio: al Social Forum del 2007 porteranno il loro teatro, le loro esperienze e testimonianze. Con la speranza che la necessità del teatro sia una risposta per altri ragazzi come loro.

L’onlus AMREF è nata nel 1957 come una piccola fondazione con base a Nairobi, trasformandosi nel tempo in un’organizzazione di carattere internazionale, un fondamentale punto di riferimento per la salute e lo sviluppo dell’Africa Orientale. Lo staff è composto al 95% da professionisti africani, medici, esperti sanitari, educatori, formatori, assistenti sociali e ingegneri, che lavorano a stretto contatto con le comunità beneficiarie dei progetti. L’impegno contro l’Aids è presente in tutti i progetti, con programmi di educazione sanitaria e prevenzione, test dell’HIV nelle baraccopoli, operatori sociali per aiutare i sieropositivi discriminati dalla società. Dal 1998 è attivo il centro AMREF di Dagoretti, nei sobborghi di Nairobi, per l’accoglienza e il recupero dei ragazzi di strada. I laboratori teatrali sono uno dei tanti strumenti utilizzati dagli operatori sociali per il reinserimento dei ragazzi nella società. I soldi raccolti con la produzione teatrale saranno finanziamenti fondamentali per il nuovo centro in costruzione nella periferia di Nairobi, dove la comunità locale, ripete spesso Marco Baliani con orgoglio, ha chiesto come prima cosa di costruire un teatro. Per informazioni, approfondimenti, donazioni www.amref.it
CONDOM SENSE

E’ così, usa “condom sense”
Per proteggerti dal virus assassino.
Sì, usa usa “condom sense”, usa il profilattico, è il modo giusto.

Joe: Oggi è il giorno, chi dice domani è un bugiardo.
La mia ragazza me l’ha promessa, veramente non posso aspettare;
prima passo dal mio amico Victor a chiedergli d’imprestarmi la casa
ma lui vuole insegnarmi a non fare sesso se non è protetto.

Victor: Come stai? Oggi voglio che tu impari ad usare il condom.
Non voglio che questa storia di giocare carne a carne ti uccida.
Così dobbiamo fare…

Joe: A che serve questa benedizione?
Non sono obbligato ad usare il “gommone”.
Come posso mangiare una caramella con la carta sopra?
Tutto quello che stai dicendo sono sciocchezze, ok?

E’ così, usa “condom sense”
Per proteggerti dal virus assassino.
Sì, usa usa “condom sense”, usa il profilattico, è il modo giusto.

Victor: Perché ti arrabbi così, non ho niente contro di te.
Non voglio vederti infettato.
Puoi mandare giù il tuo orgoglio e ascoltare.
Rimpiangerai quando sarai disperato e malato.

Joe: Ok, fammi vedere, in fretta non voglio perdere tempo.

Victor: Ecco apri il pacchetto prendi il condom.

Joe: Aah, vai piano fammi vedere bene.

Victor: Ok, è necessario essere in erezione, significa essere pronto.
Devi prendere il pacchetto, aprirlo come una busta.
Mettilo dalla parte che ha il buco verso di te e poi fallo scendere.
Così ti proteggi contro le malattie sessualmente trasmissibili e dalle gravidanze non volute.
Hai capito?

Joe: non ancora però comincio ad avere un’idea.

Victor: non c’è problema, nel terzo verso ti spiego tutto.

E’ così, usa “condom sense”
Per proteggerti dal virus assassino.
Sì, usa usa “condom sense”, usa il profilattico, è il modo giusto.

Victor: prendi il palloncino, prendi la busta, ma non hai ancora visto un condom?
Come sta andando ragazzo?
Sai che ci sono alcune cose che non si possono prendere alla leggera?
Comunque è facile, è come mettersi una giacca o un cappello sulla testa.
Come puoi andare a nuotare nel fiume Nyando senza avere il costume da bagno?
Soffriresti. Vuoi morire così presto?

Joe: va bene, ho capito andiamo, non sapevo che fosse così facile da usare.

E’ così, usa “condom sense”
Per proteggerti dal virus assassino.
Sì, usa usa “condom sense”, usa il profilattico, è il modo giusto.

API, SCARABEI E UOMINI VOLANTI

In un famoso testo degli anni ’80 sulla teoria della performance, Richard Schechner riflette sul proprium teatrale del mondo animale e per farlo analizza e descrive la meravigliosa danza delle api ballerine, un esempio di perfetta sincronia e coordinazione inapprese ma scritte geneticamente nel loro dna. Anni prima, nel 1929, Nicolaj Evreinov aveva pubblicato Il Teatro nella Vita, in cui il regista e teatrologo russo si soffermava sul mondo animale e la sua spettacolarità: le api sono anche qui descritte come creature con una forte vocazione teatrale. Ancor prima, nel 1901, il premio nobel belga Maurice Maeterlinck, anch’egli innamorato della poesia e del simbolismo dei comportamenti di questi insetti, compose un trattato sulla loro vita: La Vie des Abeilles. Oggi, James Thierrée e la sua Compagnie du Hanneton, da lui fondata nel 1998, hanno costruito a partire da un capitolo di questo trattato, precisamente Il massacro dei maschi, uno spettacolo eccezionale che, partendo dal mondo animale arriva a far emergere l’innata teatralità dell’uomo e le sue le incredibili potenzialità, nei corpi, nelle percezioni, nelle immaginazioni. La Veille des Abysses ha già toccato molte città europee, ha incantato pubblici di molte nazionalità; il breve tour italiano ha eccezionalmente e significativamente visitato il Teatro Due di Parma ed il Teatro Verdi di Firenze, tenendosi lontano dai centri teatrali più importanti, dai palazzetti dello sport e dai pala-congressi, esprimendo le nuove e grandi potenzialità della “periferia”, lontano soprattutto da quell’espressione del nuovo circo francese (franco-canadese) che spettacolarizza molto e inventa poco.
In scena cinque personaggi in cerca d’autore, un gruppo di eccezionali singolarità artistiche che creano una coralità straordinaria, dei duetti meravigliosi, degli assoli mirabili: Uma Ysamat, soprano spagnolo, capace di un’ironia e una versatilità comicissima; Raphaelle Boitel, giovane contorsionista francese che sembra essere fatta di un materiale non terrestre, sembra non avere resistenze, densità, peso; Thiago Martins, capoeirsta ed acrobata brasiliano che vola e porta il suo corpo nello spazio ignorandone, o meglio dimenticandone, sfidandone gravità, equilibrio e direzioni; il danzatore svedese Niklas Ek, la cui espressività fisica e facciale va molto oltre la parola e la cui naturale ironia è supportata da una tecnica mirabile; James stesso, acrobata e performer, musicista, regista e danzatore, che ha fatto del suo corpo uno strumento di precisione, comicità, emozione in continua, fluida trasformazione. Interpreti fantastici, perché figure di sogno, e bravissimi, alla ricerca di una storia, di una drammaturgia, della loro biografia, costruendo e decostruendo scene, oggetti, corpi. Personaggi in cerca d’autore di pirandelliana memoria, padroni della dimensione meta-teatrale quanto i protagonisti del dramma italiano, tenendosi sempre sul sottile filo dell’ironia, del paradosso, portando in scena sé stessi ma amplificando alla massima potenza il loro essere.
Della lotta delle api iniziale è rimasto apparentemente poco: un anagramma nel titolo e la battaglia contro un nemico invisibile; ma a guardar bene è nella sincronia dei movimenti, nella loro perfezione, nei voli, nelle elevazioni e nei corpi senza scheletro, molli, plasmabili, elastici, che emerge con potenza l’istinto, la naturale ed animale teatralità degli interpreti. Pare che della pesante ossatura umana sia rimasto poco o niente, pare attingano ad un’innata capacità spettacolare che risvegliata, sollecitata e protetta li ha portati direttamente alle profonde comuni radici animali, a quel punto di congiunzione, anche con che le api, lontano, coperto da strati e strati di evoluzione. Il tutto all’interno di una scatola magica, di una dimensione onirica, fatta di barocchi cucù-copricapo, ruote enormi e praticabili, divani mangia-uomini e sedie scivolosissime, pianoforti smontabili, sedie a dondolo, giradischi inceppati... I cinque personaggi mentre cercano se stessi raccontano al pubblico chi e cosa è un essere umano, come archeologi o antropologi, paleontologi, loro stessi referti senza ossa di antiche vestigia. Non c’è un messaggio, non c’è una morale, solo la risposta al semplice, atavico e intenso bisogno di raccontare e farsi raccontare delle storie. In questo campo il teatro, dice Thierrée, ha un vantaggio di migliaia di anni rispetto a cinema e tv. Ha un’efficacia rituale, un’eluttabilità e un’impellenza che ne moltiplicano l’intensità. Come un sogno, come un’opera di Magritte o Dalì, La Veille des Abysses è una successione di visioni, di opere d’arte che prendono vita, un’onirica composizione di teatro, danza, nuovo circo, acrobazie, musica…la cornice poetica è fatta di libri antichi, mobili e suppellettili vittoriani, cancelli, enormi strutture volanti a cui appendersi, da cui penzolare, di piccoli oggetti più o meno quotidiani che potenzialmente possono essere tutto. I costumi, curati da Victoria Chaplin, madre di James e figlia di Charlot, sono al tempo stesso poetici e funzionali, strumenti con cui giocare e costruire le scene ma anche elementi artistici fondamentali per l’ambientazione decadente, ironica e surreale. In una garconiere d’altri tempi, i cinque personaggi si scontrano e incontrano continuamente, tra di loro e con gli oggetti in scena: sono obbligati a trovare delle soluzioni, soluzioni che modificano e trasformano la scena e tutto ciò che essa contiene. Un divano che inghiotte chi si siede, che ne sputa fuori il corpo, viene affrontato in tutti i modi e da tutti i lati; un cancello è un ingresso, attraverso cui passare arrampicandosi, scivolando tra le sbarre, entrando con una parola d’ordine fatta di braccia e gambe, gesti precisissimi e compulsivi. In una storia un po’ d’amore un po’ no, perché le interpretazioni sono milioni, come milioni le possibilità immaginative della nostra mente. L’incontro e lo scontro poi avviene anche in se stessi, dentro il proprio corpo: Thierrée si sdoppia, schizofreneticamente diviso in due, con una metà del corpo che lo tira da una parte e l’altra metà dall’altra, diviso in senso verticale…si sdoppia con il busto che lo sostiene forte e stabile e le gambe che scivolano, perdono l’equilibrio e l’appoggio, scisso questa volta in senso orizzontale. Ci si scontra con un giornale, impazzendo per sfogliarlo, ci si scontra con un piano forte, con la propria voce, che manca, torna e tradisce a volte. E ogni personaggio ha un modo diverso di affrontare la ricomposizione, di trovare delle soluzioni, ognuno con le sue doti artistiche, con la sua tecnica, ognuno a far saltare il lucchetto della nostra immaginazione con la propria personale chiave.
Per più di un’ora si è investiti da una tempesta, che inizia soffiando via gli attori e prosegue facendoli carambolare e volare sulle teste della platea, spiazzandone le percezioni, appagandole tutte, non trascurando ed anzi premiando l’intelligenza e l’ironia del pubblico. Si prende sé stessi, il proprio dolore e le proprie debolezze e se ne fa risata e bellezza intense, come pensava lo stesso Charlie Chaplin. Una formula tanto semplice quanto preziosa. Una risata che ha il gusto forte dello straordinario, una risata che sta tra lo stupore e la gioia di esserci, di essere lì ad assistere ad una tale magia. I motivi che portano il pubblico a teatro sono tanti, di varia natura, personali, collettivi, culturali e biologici, il teatro ha ragioni che superano la ragione. Ad assistere a questo spettacolo ci si va per tutte quelle ragioni, e tra queste soprattutto per il divertimento: per il riso, per la fascinazione e per essere portati via, dis-vertiti, per essere condotti in un altro mondo, bellissimo, poetico, magico e incredibilmente vivido, in ogni suo dettaglio. La prossima occasione di vedere la Compagnie du Hannetton sarà tra un mese, portata downunder dal vento che gonfia la vela finale: approderà a Sydney, Australia, dall’8 al 22 gennaio per il Festival che animerà la città di numerosi e interessanti eventi di diverso genere.

BIOGRAFIA:

Il suo paese d’origine è il teatro; è nato in Svizzera nel 1974 ma ha vissuto un po’ ovunque. A quattro anni le sue gambe e i suoi piedi correvano svelti sul palco e poi dietro le quinte, sbucando fuori da una valigia portata in scena dal padre e lasciando il pubblico stupito e divertito. Figlio nipote e bisnipote d’arte, James Thiérrée è nato sul palco. Sua madre è Victoria Chaplin, suo nonno Charlie Chaplin, il suo trisavolo lo scrittore e drammaturgo Eugene O’Neill, suo padre è Jean Baptiste Thiérrée, fondatore con la madre del Cirque Immaginaire e poi Invisible. Con loro vive in scena, incontra gruppi di teatro diversi, esperienze artistiche varie; si forma come attore, musicista e come acrobata attingendo dai saperi che incontra sulla sua strada, fermandosi per poco alla Theatre School di Harvard a Boston, al Piccolo di Milano, a Parigi lavorando con Isabelle Sadoyan. Numerose le esperienze da interprete, teatrali e cinematografiche, con Benno Besson, Peter Greenaway, Maurizio Nichetti, Bob Wilson e molti altri. Nel 1998 fonda la sua compagnia e la chiama Du Hanneton, cioè “dello scarabeo volante”, a riprova di quanto l’immaginario animale, specialmente con un esoscheletro, sia per lui affascinante e fonte di grande ispirazione. Lavora sull’inconscio, l’improvvisazione e su quello di cui non è possibile prevedere la fine, dice. Ama l’incertezza, i paradossi, gli enigmi fisici, tutto ciò che sorprende la percezione e le aspettative. La Veillée des Abysses è la sua seconda creazione, il primo spettacolo anch’esso di grande successo internazionale fu La symphonie du hanneton.

FIGURE 2007

Gordon Craig pensava che fosse necessario che tutti gli attori morissero di peste per salvare il teatro e che il teatro non potesse essere una forma d’arte perché la sua materia prima, l’essere umano, era imperfetto, emotivo, soggettivo. Auspicava l’avvento di un attore Super – Marionetta, che come un burattino eseguisse ordini impartiti dall’alto, dal regista-mangiafuoco. Oggi possiamo dire che l’attore ha superato la dura lotta per l’affermazione e la legittimazione della propria arte, ma se come una guerra si vuole vederla, c’è ancora nel panorama teatrale un piccolo esercito che lotta per la sopravvivenza, una frangia ribelle, coloratissima, che ha dalla sua pubblici d’ogni genere, età e cultura…nel mondo contemporaneo la marionetta, il burattino, il pupazzo aspirano ad essere Super – Attori, senza però perdere le proprie caratteristiche, le affascinanti ed antiche peculiarità del teatro d’animazione. L’armata delle cosiddette “figure” è oggi un teatro “di resistenza”, che ha bisogno dello scontro e del confronto con il suo “nemico” in carne ed ossa, che ne è mossa ed animata, ma che riesce ad emanciparsi dalla dittatura della carne grazie ad artigianati ed saperi scenici antichi ed all’agilità delle sue forme. Il teatro d’animazione è un genere trasversale, fatto a sua volta da altri generi, per tutte le età, tutti gli strati culturali, fatto di localismi, di piccoli gruppi, di sfavillanti esempi di tecnica, frutto di civiltà alte e passate, ma che vive nella modernità e nel mercato globale, che sa partecipare delle avanguardie sceniche, che sa mantenere la propria specificità pur lasciandosi contaminare ed influenzare. In questo scenario di lotte intestine il 13 gennaio 2007 al Teatro al Parco sarà dato spazio ad una singolar tenzone che vedrà schierato in campo il meglio, l’ala eroica del Teatro d’Animazione, quella con armi più originali ed acuminate. Il teatro delle Briciole, Il Castello dei Burattini ed il Comune di Parma, con la sponsorizzazione del Consorzio del Prosciutto di Parma, cortese approvvigionatore della lunga serata, hanno infatti organizzato nella giornata di festa del Santo Patrono della città, una notte interamente dedicata al Teatro di Figura, dalle 18fino alle ore più piccole, in una non stop composta da eventi diversi tra loro per genere, sapore, età, tono… Figure vuole essere per il pubblico e per i suoi protagonisti non solo un momento di ribalta e rivalsa ma anche un nuovo modi di essere del e nel Teatro: una trasmissione di vita a oggetti, ombre, stoffe e legni, in spazi in cui di vita solitamente ne rimane poca e per breve tempo. Il tempo ed il luogo tradizionali della rappresentazione verranno infranti, le unità aristoteliche ignorate e gli spazi del teatro verranno vissuti in modo nuovo, in un tempo lungo. Perché ci sia incontro vero, perché il teatro sia un luogo in cui stare, per un po’, incontrarsi, conoscere, incuriosirsi, trattenersi. Sia essendo adulti che essendo piccini, insieme finchè non sorge la luna. Il 13 gennaio dunque in una serrata successione e sovrapposizione di spettacoli, eventi, film, performances, sorprese, discussioni, i protagonisti saranno tutti animati, nel pubblico e nella baracca. Le 10 creazioni prodotte in diversi linguaggi scenici legheranno l’arte popolare, l’artigianato e la cultura più edotta, incroceranno tradizioni, nazioni e regioni. A metà tra un Happening ed un Festival, questa nuova forma di Notte Curiosa, non bianca ma illuminata fino al mattino, prende le mosse dalla felice esperienza della Notte di Resistenza Teatrale promossa dal Teatro delle Briciole lo scorso anno. Figure sarà la prima nuova nottata del 2007, l’8 marzo ne seguirà una analoga dedicata al mondo femminile. Gli eventi proposti nazionali ed internazionali sono di altissimo pregio e prestigio. Tra tutti spicca lo spettacolo del maestro cinese Yeung Fai, prodotto dal TJP di Strasburgo. Fai, figlio di 5 generazioni di marionettisti, riporta sulla scena in tutto il suo poetico simbolismo e la sua straordinaria energia l’Opera di Pechino, con ogni minimo dettaglio. Uno spettacolo fatto di brevi scene tratte dalla tradizione cinese rese attraverso musica, sfavillanti costumi e trucchi, mosse di danza ed acrobatica magistralmente fatte eseguire alle marionette dal maestro che riproducono anche tutti i caratteri dell’opera cinese. Eroismo, animalità, divinità, un’atmosfera antica, il tutto reso grazie ad una padronanza tecnica che viene da lontano, da un altro continente e da un altro tempo. Solo in scena dietro ad una tavola – castelletto, Fai fa compiere alle sue marionette perfette prodezze, degne dell’arte attorica originale a cui si ispirano. Francofoni sono poi i divertentissimi e geniali “pupazzi pensionati” dei belgi Tof Theatre: vecchi bacucchi pupazzoni a grandezza naturale che offriranno al pubblico aiuto, conforto, biglietti, un aperitivo, sorprese d’ogni sorta e risate. Anziani bigliettai, maschere, baristi, personale di servizio, si confonderanno in mezzo al pubblico e lo animeranno della stessa comica vita che i loro inventori gli infondono. Degli stessi belgi è l’Intermezzo Erotico tratto da “Les zakouskis erotiques”: due piece di 20 minuti per 50 spettatori “Monsieur et madame beaurestes” e “Leon fait son spectacle”, testo, regia e scene di Alain Moreau. Gli spettatori si ritroveranno complici di due marionette voieurs che spiano i loro vicini di casa nei momenti piu intimi della vita di coppia. Perché la carne è debole ma forse il legno, la plastilina e la gommapiuma ancora di più. Dall’Australia e con un’opera eccezionale, arriverà Neville Tranter, notissimo protagonista del Teatro di Figura, che a questa nottata sarà presente con un lungometraggio tratto da un suo celebre spettacolo. Una produzione del 1990 dello Stuffed Puppet Theatre, “I sette peccati capitali” ha per protagonista lo stesso Tranter nella parte di Faust e Belzebù, altri attori in carne ed ossa nei ruoli dei vari personaggi e grotteschi pupazzi che interpretano i peccati capitali. Gli italiani presenti sono anche loro pilastri della tradizione del Teatro di Figura. I Piccoli Suicidi di e con Gyula Molnar è un classico geniale, uno spettacolo storico che non smette di affascinare nella sua poetica semplicità, nella sua nuda piccola dimensione di teatro d’oggetti: un attore che dà vita ad un alka seltzer, ad un chicco di caffè, ad un fiammifero...basta questo e si viene rapiti e divertiti in modo sorprendente. Giorgio Gabrielli con il suo baule delle meraviglie racconterà a bambini ed adulti storie d’animali e d’amicizie, in cui saranno le ombre, gli oggetti, i pupazzi a creare la scena ispirata alle Favole di Federico di Leo Linoni. Sarà sempre Gabrielli ad accompagnare il maestro Paolo Conte in giro per il teatro, al pianoforte e sulle gambe del pubblico, stringendo le mani dei fans e strimpellando noti motivi di successo. Una parodia esilarante ed una impressionante somiglianza con l’originale piemontese in un micro concerto originalissimo. Sarà poi Gaspare Nasuto, grandioso interprete di Pulcinella, a vedersela in una sfida a scacchi con la morte in “Se77e” ispirato al Settimo Sigillo di Bergman, vincitore del premio Eolo Award 2006 come miglior spettacolo teatrale, una produzione dell’Associazione Pulcinella di Mare. Nasuto è un fine conoscitore ed interprete della tradizione orale delle guaratelle ma anche un sottile ed originale amante dell’innovazione. Pulcinella reduce combattente, rientra a casa dopo anni di guerra con la sola speranza di riabbracciare moglie e figlio, ma in casa ad attenderlo trova la Morte e una scacchiera su cui viene sfidato a giocare con Lei una partita. In palio naturalmente c’è la vita, la salvezza. Pulcinella però ha molte risorse e il finale d’effetto non gli riserva lo stesso destino spettato al corrispettivo Antonius Block. Gigio Brunello porterà invece in scena uno spettacolo creato con Gyula Molnar, vincitore del Premio della Critica 2002 dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro. Macbeth all’improvviso è un dramma in due atti per burattini “in rivolta” tratto da William Shakespeare. Il burattinaio è all’inizio costretto ad annunciare al pubblico che il dramma programmato non andrà in scena a causa di problemi con “l’organico”. Anziché portare in scena Macbeth dunque verrà recitata una commedia inedita di Carlo Goldoni, L’Emigrante Geloso, utilizzando le maschere della commedia dell’arte. Arlecchino però guida i suoi alla rivolta e procede ad una personale riedizione dell’originale scespiriano. Infine sarà programmato anche un incontro con Giuliano Scabia, uomo di teatro e cattedratico ed esperto-appassionato di Teatro di Figura che si confronterà con il critico teatrale Renato Palazzi in un incontro intitolato “Tremito del teatro di figura” in cui il Prof. Scabia offrirà al pubblico anche un omaggio inedito della sua Commedia Armoniosa.
Per il programma completo, orari, titoli, biglietti e costi si veda il sito del teatro www.briciole.it

LA TELA DELRAGNO IAGO

Al Teatro del Tempo il multiforme Latini prende le sembianze di Iago, e Iago le sue, facendosi attore.
“Con una sottile tela di ragno riuscirò ad acchiappare un moscone” (Otello, atto II scena 1). Dal 16 al 18 marzo alle ore 21 al Teatro del Tempo va in scena Iago, spettacolo di e con Roberto Latini, con le musiche originali Gianluca Misiti, la scena Pierpaolo Fabrizio, le luci e la direzione tecnica Max Mugnai, la direzione di scena Dario Palombo, una produzione Fortebraccio Teatro Roma in collaborazione con il Gruppo Libero_Teatro San Martino di Bologna. Va in scena il dramma di Iago, un dramma della parola, in cui la celebre tragedia scespiriana rivive secondo un inedito punto di vista, quello di Iago appunto. La nuova prosettiva confonde i piani, la nuova angolatura sovrappone le dimensioni: performer e personaggio coincidono, il protagonista e chi lo interpreta sono entrambi artisti della finzione. Roberto Latini, straordinario attore dalla presenza e dalla voce magnetiche, riporta al pubblico uno spettacolo creato 10 anni fa (nel 1998 premio della giuria tecnica e premio della giuria popolare alla I edizione del Premio Nazionale per Nuove Proposte Teatrali “Sergio Torresani”, del Centro di Ricerca Teatrale di Cremona); una riscrittura che riaccade in seguito ad esperienze artistiche intense, ad un percorso, "radiovisioni" (Per Ecuba, Ubu incatenato), che per lungo tempo lo ha impegnato in una ricerca sull’amplificazione, non solo vocale e sonora ma anche fisica e visiva, del corpo in scena. Seguendo la recita che Iago mette in scena per tessere la sua ragnatela ed accalappiare il suo moscone, ne attraversiamo le ragioni intime, ne estrapoliamo la persona, ne ascoltiamo la voce, l’unica voce possibile per tutte le parti del dramma. Iago, condannato al dramma ed al piacere dell’inganno, della finzione, non ha azioni; ha una scena nuda, scarnificata, piena del suo essere attore; non fa nulla ma dice, modula, racconta, analizza e muove i fili, di tutti. I suoi silenzi sono produttivi ed artificiosi più di qualunque detto, riempiono la scena più di qualunque oggetto e fondale. Di radiovisioni, delle tecniche digitali, della capture motion, rimane solo un microfono attraverso cui passa la voce di Iago-Latini per farsi Otello o Desdemona. La trama, la tessitura di Iago nei suoi passaggi drammaturgici, passa in secondo piano in questa nuova edizione del dramma, perché ciò che importa è il performer, il fattore immobile, la sua recita, il suo essere spettatore di se stesso. A giugno debutterà Nnord, spettacolo con cui, dice Latini, il percorso di ricerca scenica si sposterà dalle modalità ai contenuti, da un’attenzione al come al cosa, passando anche per il transito di questo Iago 2007.

RICCARDO III A DUE MANI

Lo spettacolo di Umberto Fabi e dei suoi burattini da dito al Teatro del Cerchio
Lasciatemelo dire: Umberto Fabi è un Uomo di Teatro completo; lasciatemelo dire: Umberto Fabi è il teatro, almeno il suo, incarnando, coltivando e vivendo un’arte autarchica ed ecclettica come quella del burattinaio-attore-regista-scenografo-musicista. Assistendo al suo Erre Tre, Opera per Burattini e Burattinaio, Liberamente ispirato al “Riccardo III” di W.Shakespeare, se ne ha conferma: spettacolo ideato, scritto, diretto, interpretato, musicato, insomma di Umberto Fabi, una produzione Umbertiner Pha Bi, “il tentativo di studiare il consunto testo scespiriano adottando il linguaggio teatrale dell’animazione di burattini”. Qui Fabi riporta il complesso personaggio di Riccardo III alla sua vera ed originaria dimensione, quella farsesca ed allegorica del Vizio delle sacre rappresentazioni pre-elisabettiane. Un allestimento piccolo piccolo, in uno spazio para-teatrale, quello della scuola di Via Pini, coraggiosamente e intelligentemente adottato dal Teatro del Cerchio. Il contrasto tra le due dimensioni infonde forza alla scena, se pur minima, e lo sguardo si stringe, curioso e divertito, sulla piccola baracca di Fabi. Piccoli e magnetici sono anche gli attori: burattini da dito con morfologie intense, grottesche, come è la sua arte. Una compagnia con cui Fabi lavora in perfetta armonia: una collaborazione artistica-umana senza problemi di paghe, capricci da star. Ogni parte del corpo di Fabi ha una personalità ben definita, ognuna una voce e un modo personale di stare, essere; dita incluse: sia quando coperte dal personaggio di legno che quando scoperte, nude, serve di scena originarie. Così tra chi parla un italiano anglofono balbettante e chi ha una forte cadenza siciliana o veneta, spicca Riccardo, il burattino meno umano di tutti per parole ed opere ma con una voce bassa, profonda, di crudeltà e violenza tutte umane e reali. Si ride grazie ad un umorismo tra il dadaista e il triviale, dolce e amaro, acuto e rozzo; si ride della drammaticità della storia, lasciando però intatta la dimensione “epica-tragica” a cui, secondo Fabi, appartiene il Teatro di Figura ed a cui deve essere ricongiunto. “Il burattino non è un idiota; forse uno stronzo, ma un idiota mai…Il burattino è tragico”, scrive Fabi; il burattino è un oggetto magico, totemico, che indossato e incarnato dal burattinaio ne trasforma le membra, molto più di una maschera, celandone il corpo ma espandendone le potenzialità comunicative e fascinative. Fino a poter rendere il burattinaio o l’attore per un breve ed intenso finale burattini anche loro: Fabi emerge dal fondo con una voce sua ma esterna, volto e presenza di un Riccardo sconfitto, burattino in carne ed ossa, “demiurgo di sé stesso”.

I FEEL BLUE

Il blue per gli anglofoni è la malinconia, la tristezza (I feel blue esprime un momento che noi diremmo nero) e la musica blues nata nelle comunità afro-americane del sud degli Stati Uniti anni ’50, fra uomni e donne sfruttati e ghettizzati, è stata una forma artistica di espressione di quel disagio, delle tragedie quotidiane, una forma di emancipazione, di ribellione, di esorcizzazione e di sopravvivenza. Il blues è la musica che fa passare il blue. E Blues, il nuovo spettacolo scritto e diretto da Bruno Stori, prodotto dal Teatro delle Briciole, andato in scena per le scuole lo scorso maggio, racconta proprio di tutto questo, della grande storia (dal 1958 al 1968, gli anni delle lotte per l’emancipazione della comunità nera), della grande musica (fino alla nascita del rock ‘n roll) e della piccola esistenza di un protagonista che vuole vivere in pace e suonare il blues. Nello stile scanzonato e trascinante di Stori, con una riflessione ed una ricerca musicali molto approfondite, Muddy Waters, B. B. King e gli altri nomi importanti del blues sono evocati da un paradiso-palcoscenico fumoso ( forse è un inferno..?) come fossero anime elette. Blues è la storia di Jamping Jack White, un tredicenne che vive in un buco di paese nel delta del Mississipi, povero e solo ma destinato alla grandezza, grazie alla chitarra donatagli da un ometto incontrato per caso. Claudio Guain nel suo splendido completo bianco e argento (Letizia Quintavalla, che ha curato anche le scene) riflette le luci (di Emiliano Curà), danza divertito e duetta con Paolo Venturi (dal vivo sul palco a suonare con talento ed intensità chitarra e batteria): i due insieme danno voce, note e presenza alla storia del piccolo Jack, con l’entusiasmo, l’energia e la suadente malinconia del blues che li anima. La lotta per sopravvivere e per la musica di Jack è scandita dagli incontri importanti e dalle canzoni straordinarie che ascolta, è la lotta di tutti i suoi fratelli; le sua salita verso il successo, lassù fino al palco del Bluenotes, fino al Washington Park di fronte alla Casa Bianca, a gridare al mondo l’orgoglio e la dignità del blues, è la salita che tutti i neri d’America hanno dovuto fare per affermare i propri diritti civili. E’ una musica che ti cambia la vita, se chiudi gli occhi e lo lasci suonare questo blues…dovunque tu sia, chiunque tu sia, un trevigiano con la barba, un giovane musicista che ha viaggiato l’America o un ragazzo qualunque, che finalmente si apre al mondo.

L'AMORE NATURALE ED ASSOLUTO

Al Teatro Due un dialogo sull’amore e sulla vita di coppia portato in scena da Fabrizio Parenti

L’Amore, declinato nella relazione tra un Uomo e una Donna, è esperienza in sé naturale, comune, eppure misteriosa, lacerante, assoluta. Al Teatro Due, dal 12 al 15 aprile 2007, alle ore 21.00, va in scena L’assoluto naturale, dialogo teatrale per Uomo e per Donna sul rapporto di coppia, scritto nel 1963 dal vicentino Goffredo Parise, interpretato da Carla Chiarelli e Fabrizio Parenti, che ne firma anche la regia, una produzione CRT Centro di Ricerca per il Teatro. Scrivendo e recitando d’amore è inevitabile sfiorare o attraversare l’autobiografia e se per Parise comporre questo testo fu in qualche modo l’elaborazione del fallito rapporto con la moglie, per i due attori, uniti sulla scena e nella vita, interpretarlo deve essere stata una prova, una riflessione importante per il loro rapporto. Stessa cosa per il pubblico, che certo si sentirà profondamente coinvolto dal lucido e intimo scambio-scontro tra razionalità e sentimento, da istinto e ragione, tra i due elementi dell’amore che si guardano negli occhi. L’analisi che Parise fa della relazione amorosa è, nella forma, scientifica, con momenti di ironia e sottile comicità, con altri di drammatica intensità. La scena si apre su un giardino, con due modellini in scala di animali preistorici, dando al tutto un senso di ricerca più etologica che antropologica o psicologica. Ricerca che tocca le fasi di una vita di coppia qualunque, umana o animale: l’approccio e la seduzione, la comunione, la crisi, l’arrivo di un terzo. L’allestimento di Parenti elimina il coro delle vecchie e riduce il “terzo” ad un feticcio inerte costruito dalla Donna che domina la materia, ambientando l’azione su un prato artificiale, rendendo i personaggi vagamente farseschi. “L’assoluto naturale è un esperimento sul Mistero, un vetrino di microscopio su cui viene posta una lacrima, che, se osservata attentamente, smette di essere solo una goccia di acqua e sale ma diventa il racconto della lotta tra Desiderio e Ragione”. In questo dialogo paradossale, perché incentrato sul paradosso dell’attrazione degli opposti, c’è spazio per la ragione, Lui, e l’istinto-gelosia-possessione, Lei (non senza un certo e neanche tanto celato maschilismo); per i loro “perché”, pronunciati nonostante l’incomunicabilità, le distanze, le incomprensioni. La Donna pretende dall’uomo l’assoluto, lo lega a sé e lo lega sulla scena al letto nuziale inducendolo al suicidio, alla totale rinuncia a sé. Per Parise l’amore è questo: un assurdo, irrinunciabile, vitale e mortale scontro, in cui uno pretende di possedere l’altro e l’altro si arrende, annullandosi, alle pretese dell’uno. Dramma delle nostre vite animali, ma vissuto con intelligenza e consapevolezza proprie della natura umana. Vissuto con ironia, a cui la sintonia e la coordinazione della coppia Chiarenza-Parise infonde un ritmo perfetto, che coinvolge e trascina il pubblico, lasciandolo pensieroso, rassegnato e divertito.

IL DRAMMA DELL'IRA

Cade il telo rosso che separa il pubblico dalla scena e si palesa d’improvviso lo spazio angusto e nudo che accoglie il dramma di Antigone, prima produzione delle cinque che compongono il progetto del Teatro Stabile di Torino, Fondazione Teatro Due, Teatro di Roma in cui sono impegnati un nucleo stabile d’attori, cinque registi e cinque traduttori. Una pietra vulcanica ruvida e grigia, ideata da Tiziano Santi, su cui posano e contro cui si stagliano le candide figure del dramma, abbigliate da Vera Marzot. Come se un’eruzione, d’odio più che di fuoco, di hybris più che di lava, avesse coperto la città di Tebe. Non c’è spazio per l’azione nella tragedia sofoclea diretta da Walter Le Moli ma solo per le sue nude, gelide e taglienti parole, nella cristallina traduzione di Massimo Cacciari. Il dramma si consuma fuori dalle mura, dove il corpo di Polinice giace senza sepoltura, per ordine del re Creonte, suo zio. In scena protagonista è l’ira, la rabbia, l’umana tracotanza, destino inesorabile della discendenza e della parentela edipica. L’ira di Antigone, una energica Paola De Crescenzo, donna dalla forza morale e dall’iniziativa maschile, che sfida a viso aperto e fronte alta il potere, che affronta le conseguenze delle sue azioni, la scelta di dare i dovuti onori funebri al fratello nonostante il decreto regale, con sguardo e tono fermo, raggelante. Quella del suo oppositore, Creonte, che Elia Schilton fa vibrare di rabbia e dolore per lo più inesplosi eppure laceranti; colorato nella recitazione come nel manto regale, la sua voce sempre di un tono basso, che in rari toccanti momenti si fa penetrante, acuta o lacrimosa. Lo scontro e la rabbia non risparmiano nessuno e mettono sorella contro sorella, figlio contro padre, moglie contro marito, città contro governo. La polis, impersonata dal coro, annunciato e accompagnato in scena da 4 musicisti, declama con forza i suoi versi, sospinti e sostenuti dalle musiche di Alessandro Nidi. Il corifeo, Francesco Rossini, interpella con parole e sguardi le figure, i personaggi silenziosamente al muro. E’ lui con le 4 figure maschili del coro ad essere il motore delle interazioni tra i personaggi. Infine l’intervento dell’indovino Tiresia (Giancarlo Ilari), guidato da una figura quasi non-umana anch’essa apparentemente priva della vista, che annuncia al re i presagi di morte e di sorte nefasta per la sua discendenza. “Un silenzio pesante più del vano gridare”, una tragedia che si compie così come era stata preannunciata: Creonte straziato dal dolore, privato di moglie ed ultimogenito, Antigone morta per la punizione inflittale da Creonte stesso. Entrambi vittime, di sé stessi e dell’altro; entrambe, la legge divina e la legge secolare, destinate al fallimento quando incancrenite nelle proprie ostinate posizioni, incapaci di accettare il confronto e la discussione.

IL PROBLEMA DI PALERMO E' IL TRAFFICO

Pippo Fava fu giornalista, direttore del Giornale del Sud e fondatore de I Siciliani, Orso d’Oro a Berlino per la sceneggiatura di Palermo or Wolfsburg nel 1980, drammaturgo e saggista. Pippo Fava è stato, tragicamente, il primo intellettuale caduto vittima della mafia: Cosa Nostra (nelle persone di Nitto Santapaola, Marcello D’Agata, Francesco Giammuso, Aldo Ercolano e Maurizio Avola) lo uccise con cinque colpi di pistola davanti al Teatro Stabile di Catania 24 anni fa. Pippo Fava era “uno che le male giornate non se le andava a cercare, ma che quando il vento tirava se lo prendeva in faccia”. L’Istruttoria, vista al Teatro alla Corte (Giarola), è lo spettacolo-documento che il figlio ha scritto, con lucidissima e poetica mano, attingendo alle 234 udienze, 260 testimonianze, 6000 pagine di verbali del processo che seguì la sua morte, conclusosi dopo 18 anni con due ergastoli ed un patteggiamento a 7 anni. Rievocatori del dolore e della rabbia sono i due figli, che tra la paura e la necessità di denuncia introducono le testimonianze di onorevoli, boss mafiosi, giornalisti, poliziotti, pentiti. I loro pensieri e sentimenti li uniscono e li dividono davanti alla tragedia: l’uno ostinato nel ricordare e nel lottare, l’altra rassegnata nel dimenticare, nell’abbandonarsi alla paura. In scena, ad interpretare non solo i figli di Fava ma anche tutti i protagonisti della vicenda giudiziaria, due formidabili attori siciliani, Claudio Gioè e Donatella Finocchiaro, giovani ed esperti, perfetti nei loro ruoli, toccanti, a tratti ironici (quando l’arroganza del potere si fa insopportabile). L’uno capace di una versatilità, un’intensità ed una verità formidabili, magnetiche; l’altra commovente, composta, in una sofferenza trattenuta sulle labbra, inesprimibile, sciolta infine in una lacrima. Con loro sul palco quattro musicisti, ad accompagnare con note sommesse, coinvolgenti e con struggenti canti palestinesi, le terribili e vergognose parole pronunciate in aula. Un pièce importante, necessaria, vera e poetica, un gesto artistico di lotta contro l’abitudine, l’indolenza, la menzogna, contro chi ancora considera la mafia “solo un’etichetta” e chiama “fattore umano” l’odioso meccanismo di tangenti, ricatti e favoreggiamenti di Cosa Nostra.

IL PROBLEMA DI PALERMO E' IL TRAFFICO

Pippo Fava fu giornalista, direttore del Giornale del Sud e fondatore de I Siciliani, Orso d’Oro a Berlino per la sceneggiatura di Palermo or Wolfsburg nel 1980, drammaturgo e saggista. Pippo Fava è stato, tragicamente, il primo intellettuale caduto vittima della mafia: Cosa Nostra (nelle persone di Nitto Santapaola, Marcello D’Agata, Francesco Giammuso, Aldo Ercolano e Maurizio Avola) lo uccise con cinque colpi di pistola davanti al Teatro Stabile di Catania 24 anni fa. Pippo Fava era “uno che le male giornate non se le andava a cercare, ma che quando il vento tirava se lo prendeva in faccia”. L’Istruttoria, vista al Teatro alla Corte (Giarola), è lo spettacolo-documento che il figlio ha scritto, con lucidissima e poetica mano, attingendo alle 234 udienze, 260 testimonianze, 6000 pagine di verbali del processo che seguì la sua morte, conclusosi dopo 18 anni con due ergastoli ed un patteggiamento a 7 anni. Rievocatori del dolore e della rabbia sono i due figli, che tra la paura e la necessità di denuncia introducono le testimonianze di onorevoli, boss mafiosi, giornalisti, poliziotti, pentiti. I loro pensieri e sentimenti li uniscono e li dividono davanti alla tragedia: l’uno ostinato nel ricordare e nel lottare, l’altra rassegnata nel dimenticare, nell’abbandonarsi alla paura. In scena, ad interpretare non solo i figli di Fava ma anche tutti i protagonisti della vicenda giudiziaria, due formidabili attori siciliani, Claudio Gioè e Donatella Finocchiaro, giovani ed esperti, perfetti nei loro ruoli, toccanti, a tratti ironici (quando l’arroganza del potere si fa insopportabile). L’uno capace di una versatilità, un’intensità ed una verità formidabili, magnetiche; l’altra commovente, composta, in una sofferenza trattenuta sulle labbra, inesprimibile, sciolta infine in una lacrima. Con loro sul palco quattro musicisti, ad accompagnare con note sommesse, coinvolgenti e con struggenti canti palestinesi, le terribili e vergognose parole pronunciate in aula. Un pièce importante, necessaria, vera e poetica, un gesto artistico di lotta contro l’abitudine, l’indolenza, la menzogna, contro chi ancora considera la mafia “solo un’etichetta” e chiama “fattore umano” l’odioso meccanismo di tangenti, ricatti e favoreggiamenti di Cosa Nostra.

Un poco di romeo e un poco di Giulietta, mescolare e servire a piacere,

Se da quella che è diventata la tragedia dell’amore per antonomasia, Giulietta e Romeo, si estraesse un po’ di disperato amore adolescente, se si cercasse di lasciare da parte il bruciante odio familiare, se si provasse a tenere solo “Un poco di Romeo ed un poco di Giulietta”, si potrebbe vedere la storia prendere svolte inaspettate, si vedrebbero affiorare dinamiche, aspetti e personaggi rimasti in secondo piano, che aspettavano solo di svincolarsi dal tragico e partecipare con entusiasmo alla dimensione a loro più congeniale, il comico. Ad impastare, giocare e riflettere sui dosaggi e sulle alchimie che compongono il senso teatrale della storia dei due amanti di Verona, è stato un gruppo d’attori (Emanale Arata, Michela Astri, Erika Borella, Pietro Bertora, Elena Borra, Andrea Costa, David Finardi, Nicola Savani, Daria Stefanini), guidati da Carlo Ferrari: il “Teatroperunpò” ha scelto un nome adatto alla propria poetica, abbracciando la dimensione meta-teatrale, calcando il palcoscenico un po’ da attori e un po’ da personaggi, sospendendo l’immedesimazione pur lasciando un po’ di teatro in scena. Il testo è stato per loro piuttosto un pre-testo, con cui si è data libera iniziativa all’espressione individuale e corale, evocando la vicenda, impossibile da ignorare, ma rimanendo nel proprio mondo, nella propria Verona, diversa nei modi e negli usi dalla Rinascimentale cittadina principesca. Nella Verona per un po’, nel po’ di Verona in scena, creata da un maghetto lì per lì, l’attore che si domanda come interpretare il proprio ruolo, affida al suo costume, ad una maglietta, il messaggio, lasciando che il pubblico legga da sé ciò che il testo vorrebbe che lui fosse, lasciando che sia così la libertà della sua immaginazione e della sua interpretazione a decidere chi e come essere in scena. La scenografia assente fa sì che lo spazio e l’ambiente siano sempre in mano e sul corpo degli attori. Mescolando, sottraendo, aggiungendo, del testo originale rimane poco o niente, ma non c’è perdita, tutto lievita, alleggerito dalle responsabilità drammatiche ed insaporito dalle trovate comiche. Così Paride è finalmente in grado di riprendersi lo spazio che merita, se pur per un breve inebriante momento; l’allodola e l’usignolo sono materiale per esperti ornitologi e non si può decidere così su due piedi se sia giorno od ancora notte; il ballo in maschera è un raduno di nani nostalgici che ascoltano Caterina Caselli ballando alle spalle della coppia Romeo e Giulietta, Biancaneve e Principe, intenti in un goffo approccio; il coro che tiene le fila del discorso è un duo che vive con gioia e libertà la propria omosessualità; Giulietta riesce persino a rimanere in cinta, così, alla prima occasione, alla prima fatale pinta, o spinta; al matrimonio riparatore il fotografo regala polaroid e Frate Lorenzo biascica inascoltato la sua omelia, qualcuno dà in escandescenza perché i matrimoni sono sempre comunque commoventi…Tutto partecipa di una comicità spontanea e seducente, che attinge alla naturale ironia degli attori, a musiche d’effetto, ad una coralità energica ed originale, senza quel senso di profanazione, di facile parodismo, in agguato dietro ogni nuova versione comica delle tragedie scespiriane.

Un’ otra vez Cesar Brie:sguardi su un’umanità fragile

Cesar Brie torna in Italia con due produzioni del suo Teatro del los Andes, in collaborazione con Emilia Romagna Teatro. Il 7 e 8 aprile sarà con la compagnia al Teato al Parco, ore 21, con Otra vez Marcelo e Fragile. A 52 anni, più della metà passati a fare teatro in giro per il mondo (dall’Argentina alla sede dell’Odin in Danimarca, all’Italia, alla Bolivia…), Cesar Brie continua a raccontarci, con poesia e passione saldamente sudamericane, le due inscindibili dimensioni della vita umana: la forza e il coraggio adulti delle proprie idee, fino alla morte-martirio, e la fragilità, la delicatezza ingenua dei sogni e degli ideali giovanili, che ne sono la necessaria premessa, il passato adolescente. Il teatro di ricerca ancora una volta è opposizione civile, rivendicazione ed atto politico-umanitario. Ancora una volta, ma con meno fermezza, più fragilità.
Otra vez Marcelo è il “monumento scenico” che il Teatro de los Andes ha dedicato a Marcelo Quiroga Santa Cruz, intellettuale boliviano (autore de “Los deshabitados”, romanzo con cui vinse il premio Faulkner) barbaramente sequestrato, torturato e assassinato durante il colpo di stato del 1980. Marcelo fu un parlamentare che si oppose alle dittature di Barrientos e Panzer e che pagò con la vita il suo impegno politico. Dopo 26 anni il suo corpo ancora assente getta un’ombra inquietante e scabrosa sulla debole democrazia boliviana. Lo spettacolo è l’ultimo momento della trilogia “politica” del gruppo sudamericano, iniziata con “Iliade”, una meditazione sulla guerra e sull’uso della forza e proseguita con “Dentro un sole giallo”, opera dedicata alla catastrofe naturale (un terremoto) e alla corruzione che si abbatterono sulla Bolivia nel 1998. Dice Brie citando il poeta argentino Roberto Juarroz che “Pensare ad un uomo significa salvarlo”. Ed è questo bisogno di testimonianza e salvezza, riscatto e vivificazione che Brie porta in scena attraverso un montaggio intimo dei discorsi e delle parole politiche di Marcelo, delle sue conversazioni con l’adorata moglie Cristina, le sue foto, immagini di vita pubblica e privata proiettate sulla parete. Ne emerge un ritratto lucido ed appassionato di un uomo che lottò con tutte le proprie forze per la libertà del suo paese, anche grazie al sodalizio profondo con una donna che gli restò vicino nell’esilio e nelle persecuzioni.
Fragile è uno spettacolo scritto e diretto da Brie con Maria Teresa del Pero (ed il resto del gruppo). I testi sono tratti dal romanzo di Paola Masino del 1935 “Vita e morte della massaia”, che con sguardo ironico e cinico riflette sull’oppressione dei sogni e sull’assurdità delle più ricorrenti situazioni domestiche e familiari, e da brani di Boris Vian, che cinquant’anni fa diceva di non voler crepare, no, “senza sapere se il sole sia freddo, se le quattro stagioni siano poi veramente quattro.” Due autori che, ciascuno a suo modo, sono stati dei difensori dell’infanzia e dell’adolescenza: della sua dimensione immaginativa, dei suoi sogni, delle sue domande più assurde e delle sue risposte paradossali. La protagonista è Lucia, una bambina che vive in un baule per non diventare grande. Ha paura Lucia degli adulti che le stanno intorno; ha paura di diventare come loro e di “seppellire i sogni con le abitudini”. La fragilità di Lucia sta nelle sue domande, nella sua ricerca di senso in una realtà adulta e meschina. L’infanzia è la dimensione del gioco, del “come se”, della fantasia e solo gli artisti, gli amanti e quelli che restano un po’ adolescenti possono continuare a goderne, continuare a nutrirsene. Delicato e leggero, malinconico e sorridente, lo spettacolo ci ricorda come il Teatro sia un luogo salvifico e salvo, dove non si temono le emozioni, ed anzi le si affronta con lo spirito d’avventura e ricerca dei nostri anni piccolini.

Tête à Tête, ( uomini sull’orlo ) c’est nécessaire et fondamental

Ci sono poche, importanti, necessarie e fondamentali regole per un tête à tête ben riuscito: 1- far succedere tutto per caso, 2- godere di ciò che non si vede, 3- vivere nel totale disequilibrio. Quattro mini-appartamenti 1m X 1m, con una finestra sul cortile ed una porta sulla meraviglia, sono la scena ideale; uno sia riservato a toilette. Come in Tête à Tête, straordinaria piéce di Nouveau Cinque del Teatro Necessario, regia di Mario Gumina, andata in scena, cioè, carambolata in scena il 5, 6, 7, 8 gennaio scorsi al Teatro Europa.
Una generosa e vincente sfida alla gravità, in senso fisico e umorale, che dà piuttosto da fare anche alla nostra percezione ghestaltica del mondo. I tre personaggi si chiamano Jacopo Maria Bianchini, Leonardo Adorni e Alessandro Mori, perfettamente interpretati da 3 trentenni ancora agilissimi. Angelo Facchetti è il genius loci del focolare. Con loro sul palco gli Oggetti, che finiscono sotto, sopra ed intorno ai personaggi, come vivessero di vita propria. E probabilmente è così; ho visto valigette scappare per non affrontare la battaglia indiana che si combatte là fuori nella city.
In Tête à Tête tutto e tutti condividono la stessa incredibile capacità di essere e non essere, senza alcuna difficoltà. Nel totale disequilibrio si vive felici. E felici si assiste alla vita in bilico dei tre amici coinquilini, che a tratti sono un unico braccio, un'unica gamba e un unico largo sorriso. Ci si chiede cosa li tenga sulla terra; se tutto sia un caso o no. E’ un caso che i suonatori assomiglino incredibilmente ai loro rispettivi strumenti? E’ un caso che atterrino sempre in piedi? La stabilità è un lusso, come lo spazio. Ma lo spazio non serve quando ci sono porte, tende, sportelli, buchi che aprono mondi. Cosa farsene della stabilità quando ci si può rilassare sui piedi di un amico, dormire con le gambe di un altro, chiacchierare a testa in giù come cordiali vicini di casa?
Il Teatro Necessario si è scelto un nome semplice e adatto ad ogni gioco (non solo di parole), come lo sono i suoi componenti e come lo è la loro poetica. Improvvisando un’improvvisazione assolutamente non improvvisata, lavorando sul contrario, sulle opposizioni, sulle tensioni e sul disequilibrio, si avvicinano alla migliore tradizione della Commedia dell’Arte. Con Tête à Tête si prova il sollievo e la liberatoria sensazione della risata e dell’incredulità, della sforbiciata e della smorfia. Il che è bello ed istruttivo, diceva un tale.

Sasha Waltz sotto la catastrofe ed oltre

Al Reggio Emilia Danza (RED), rassegna che rientra nel più vasto carnet di eventi del Reggio Parma Festival, lo scorso maggio è andato in scena al Teatro Valli Gezeiten: uno spettacolo di danza, teatro e musica, per la regia e la coreografia di Sasha Waltz. La coreografa ed il suo ensembe di 16 danzatori affrontano questa volta le trasformazioni della vita, gli eventi di cui siamo in balia ed i loro effetti sulle esistenze, del singolo e del gruppo. D'altronde Sasha Waltz ed i suoi “ospiti” sono essi stessi per definizione e costituzione una compagnia in continua trasformazione: dal 1993, anno della fondazione a Berlino della compagnia con Jochen Sanding, più di 150 danzatori ed artisti, provenienti da 25 diversi paesi, hanno collaborato o preso parto alle creazioni artistiche del gruppo. In una stanza segnata dal tempo e dagli eventi, in cui i muri trasudano memorie tragiche e le porte non riescono più a lasciare fuori la furia del mondo, un gruppo di sopravvissuti è costretto alla condivisione, del dolore, della follia, dell’emergenza, della vita. Ed in quest’intima convivenza i corpi a coppie s’intrecciano e si disfano, s’appoggiano e disequilibrano, sicuri che dall’altra parte ci sarà una coscia, un avambraccio, una pancia a sostenerli. Un contatto accogliente e forte. Tutto si è bloccato nell’attimo del disastro, di qualunque genere sia stato, che li ha sorpresi insieme in quel luogo, con quegli abiti ed in quella disposizione d’animo. Ecco allora i corpi diventare rigidi, le posizioni raggelarsi per il terrore. Ma ci sarà sempre qualcuno che raccoglie, che sostiene, che occuperà il posto e prenderà la forma di qualcun’altro. Il gruppo è preciso e s’incontra con perfetta sincronia, creando giochi di simmetrie divertenti e ironici, momenti in cui il corpo partecipa della scenografia, della musica, degli altri. Dell’affascinante meccanismo, in cui qualcuno entra e qualcuno esce senza mai causare danno agli equilibri, è artefice anche il suono: il violoncello in scena è suonato da James Bush. Danza dunque, e di una grazia e di una forza toccanti, nella prima parte. Con lenti cambi, lente entrate ed uscite, con ritmi armonici e fluidi, per cercare i punti d’appoggio e per sentire fin dove pendere, spingere e salire, senza perdere stabilità. Nella seconda parte la dimensione coreografica viene drasticamente sopita, ed un po’ se ne sente la mancanza. I corpi hanno perso la leggerezza e la fluidità iniziali, il cielo pesa su di loro, l’aria sporca, la terra. I suoni arrivano da ogni parte, distorti, di fondo, sommessi o roboanti, anche da un microfono in proscenio. Ma la scena non perde intensità, anzi, e le catastrofi fanno il loro corso, trascinando con sé lo spazio e chi lo vive. S’assiste a spaccati reali di scenari drammatici, che ognuno affronta nella sua lingua e con i suoi modi: epidemie, terremoti, persino incendi, veri, verissimi, che divorano le pareti della stanza, i corpi e le menti dei danzatori-attori. L’uomo in balia della natura, senza potere sull’esterno, perde il controllo, del gruppo ed anche di sé. E sorge, si sviluppa ed avviluppa tutto la follia. Tanto da tenere il fiato sospeso, in attesa della prossima reazione, della prossima visione. E’ nei gesti più piccoli, nei tremori e nelle visioni più surreali, al limite del comico, è nelle scene di lotta e d’affetto, nella normalità cui si cerca di rimanere aggrappati. Dei cliché alla “Lost”, delle epopee di sopravvivenza alla “Cast away”, ci si prende gioco con gusto e con cinismo, tutto rimane su di un filo sottile, che lascia sempre cadere un piede nel tragico e nel doloroso e l’altro nell’assurdo, nel ridicolo. Senza sapere dove si va a finire, come se non ci fosse limite…fino alla morte e rinascita della crisalide in nuove forme di vita.

LA MENTE ED IL SUO DOPPIO (TEATRALE):I TEATRI DELLA MENTE E LA MENTE DEL TEATRO

Quando si parla di Mente e Teatro il pensiero corre subito all’immedesimazione, quella dell’attore nel personaggio che interpreta o quella del pubblico nel personaggio che vede interpretato. Il pensiero corre a quel senso di trasporto e coinvolgimento che chiunque sia stato in un pubblico teatrale ha provato, che fa agitare sulla poltrona o che, come disse Amleto, porta l’attore alle lacrime, “per cosa? Per niente, per Ecuba”, per fantasie. Certo il mistero dell’arte della scena ha molto a che fare con questa “magica” capacità di creare una dimensione congiuntiva, parallela alla realtà indicativa. Il Teatro è il dominio del “come se” ma produce nei corpi coinvolti effetti indiscutibilmente veri. Volendo scendere in profondità però la questione si dimostra essere ben più complessa. Da Dove viene questa empatia, non solo emotiva ma spesso cinetica, che si prova in platea e da dove viene la vocazione alla recitazione, la straordinaria capacità di creare la congiuntività? Come funzionano? Perché si manifestano e che motivi ha l’uomo per esserne dotato? Cosa possono dirci sulle origini delle arti sceniche e sulle loro ragioni sociali ed evolutive? Domande per le quali numerosi studiosi di diverse discipline cercano risposte esaustive. Ha scritto Antonin Artaud: “…Il Teatro è un atto sacro, che impegna tanto chi lo vede che chi lo esegue…l’idea psicologica fondamentale del teatro è questa: un gesto che si vede… ha lo stesso valore di un gesto che si fa.” Questo è uno dei Messaggi Rivoluzionari (ed. it. a cura di Marcello Gallucci, Monteleone, Vibo Valentia, 1994, p.146) che uno dei padri della scena moderna lanciava nel 1936, portando la riflessione in merito al teatro sul vero ed attuale centro d’interesse della nuova teatrologia: la Relazione Teatrale, quella tra spettatore ed attore, il rapporto cruciale tra produzione e ricezione. Artaud e “i soliti noti” della rivoluzione moderna a teatro, Stanislavskij, Mejerchol’d ed il grande Jerzy Grotowski ne declinarono i modi raggiungendo frontiere a cui la ricerca scientifica arriverà solo dopo cinquant’anni, assolvendo meravigliosamente al ruolo d’avanguardia riservato all’arte. I maestri della scena sapevano, i loro corpi sapevano quello che la scienza avrebbe poi confermato con la risonanza magnetica. Sapevano molto sui processi emotivi, su quelli empatici e cinestetici (numerose le collaborazioni con psicologi e fisiologi loro contemporanei, uno fra tutti Wiliam James); sapevano molto sulla necessità di considerare il corpo e la mente come un’unità inscindibile. Nelle parole citate di Artaud sono racchiuse in nuce 50 anni di ricerca teatrale e scientifica: in esse risiede l’affascinante idea che azione e percezione dell’azione siano intrinsecamente legate, tanto da coinvolgere le stesse strutture e porzioni anatomiche del cervello, tanto da arrivare a poter dire che il percepire l’azione di un’altra persona (osservarla od udirla) equivalga ad una sua esecuzione virtuale, ad una simulazione. La stessa affascinante idea che le ricerche sui neuroni mirror del Laboratorio di Neurofisiologia dell’Università di Parma hanno empiricamente dimostrato essere una realtà. Artaud diceva che a teatro osservare un gesto ha lo stesso valore dell’eseguirlo; Grotowski parlava di osmosi, di provocazione all’azione ed alla collaborazione tra performer e pubblico; Rizzolatti ed i suoi collaboratori ci dicono, come emerso nell’intervista rilasciata a Nicola Gandolfi, che la produzione d’azioni e la loro percezione-comprensione implicano l’attività elettrica degli stessi neuroni (mirror), che il legame tra azione-percezione-comprensione è vero, non solo a teatro. E’ vero per l’Uomo in generale, per tutta la sua vita cognitiva.
La simulazione incarnata è il livello funzionale del sistema neurale mirror, esprime il meccanismo non conscio, automatico e pre-linguistico con cui l’osservatore si rapporta all’agente e ne comprende gli atti. Essa è verosimilmente la principale strategia di comprensione che l’uomo possiede (ma certo non l’unica): osservare un’azione equivale a ricrearla internamente, simularla nella proprio corpo, per capirla. Il valore evolutivo dei fenomeni spettacolari, in cui la simulazione è certo la dimensione precipua, acquista alla luce di queste affermazioni forza e realtà anatomica: gli eventi spettacolari incentrati sul “come se”, sulla costruzione del modo congiuntivo sono fatti di simulazione così come lo sono le menti di chi li interpreta e di chi vi assiste. Il Teatro appare come una palestra molto efficace, in cui la simulazione incarnata si fa azione in scena e partecipazione in sala. Anche per questo il teatro non è un “organo vestigiale”, non è un residuo spettacolare di precedenti espressioni rituali sacrali. La scena è anzi il luogo in cui il meccanismo mirror trova la sua dimostrazione più potente ed il suo dispiegamento più efficace. Il corpo-mente del performer in scena esposto allo sguardo del corpo-mente dello spettatore in platea amplifica l’effetto della simulazione incarnata. La forza del Teatro sta tutta qui: nella sua potente fascinazione, nella sua provocazione, non solo morale ma anche fisica, che genera grazie all’esposizione di corpi e menti che agiscono, non mediati, vivi ed organici. Il Teatro rappresenta per l’Uomo la piena ed appagante realizzazione del suo essere simulativo, da sempre. Almeno da quando il Primate Amletico ha iniziato a comprendere attraverso la simulazione incarnata ed a comunicare attraverso al simulazione in scena.

Le ricerche del laboratorio parmigiano sono state (e saranno) di forte stimolo per le discipline scenologiche che si occupano dello spettacolo da un punto di vista evolutivo. Esse trovano in queste ed in altre scoperte scientifiche possibili conferme alle proprie ipotesi. Antropologi dello Spettacolo, studiosi di Performance Studies, ricercatori di Etnoscenologia, Antropologi del Teatro: sono in tanti ad interrogarsi sul bisogno di spettacolarità, sull’istinto teatrale umano, sugli aspetti di lunga durata e geneticamente determinati nelle espressioni spettacolari di società distanti tra loro nello spazio e nel tempo. Le comunanze e le condivisioni a questo livello d’analisi scendendo necessariamente nei corpi-mente dei pubblici e dei performer. Per questo le Scienze Teatrali devono interrogare le Scienze della Vita e le Neuroscienze: il perché dello spettacolo, il perchè si fa o si va a teatro è rintracciabile nei suoi come, nei suoi processi di produzione e ricezione. Processi che hanno dei dove specifici, delle localizzazioni anatomiche. Le ricerche di neurofisiologia forniscono dei dove e dei come al teatro, agli scenologi poi spetta il compito di elaborare dei solidi perché.

Per la TerraDiMai: seconda stella a destra, al civico Due

Nell’epoca attuale della comunicazione di massa e dell’impresa culturale, il grande ed il piccolo schermo sono spesso gli spazi virtuali deputati alla trasmissione delle tradizioni, delle leggende, del folklore e della fantasia occidentali. Walt Disney ha fatto negli anni incetta di fiabe e racconti, spesso mutandone e traslandone lo spirito, quasi sempre facendone una cosa nuova e diversa: un prodotto. Le fiabe sono diventate merce, oggetti commerciabile nella misura in cui “impacchettati” in funzione di un target preciso, il più potente ed allettante fra i gruppi d’acquisto: i bambini. Così, mettendo in scena Peter Pan, dal Teatro Due ammoniscono: dimenticarsi Walt Disney, la bambinizzazione dell’originale soggetto di Barrie e la sua moralizzazione. Lo spettacolo sarà in scena dal 2 al 9 aprile, ore 21, con la regia di Davide Livermore, il testo tradotto ed elaborato da Luca Fontana, gli attori dello stabile, una decisa direzione poetica. Scordato il cinema, chiuso per un po’ il libro, Peter Pan arriva a teatro e da subito stabilisce le sue regole: niente cravatta, tante sorprese, molto gioco. A teatro come sull’Isola di Mai si sospende l’incredulità, si sceglie di abbandonarsi alla fantasia, al “come se”, al gioco in scena e della scena, in sala e sul palco.
Se Peter Pan è un inno alla giovinezza ed al gioco, alla gaudente e spensierata infanzia, egli è anche e soprattutto una “mitologia diffusa”, scrive Fontana, che parla a tutti, tutti i bambini di oggi e di ieri. Come ogni mito Peter Pan ha la forza dell’universale e della sua traduzione in immagini, in storia e personaggi: la perdita del corpo bambino, della vita in cortile ed in cameretta, dell’infanzia libera e leggera; Peter Pan ci parla del lutto che per il resto delle nostre vite cercheremo di elaborare: la perdita del bambino che siamo stati. Il mito dell’eterna giovinezza qualcuno lo insegue ricorrendo alla chirurgia estetica, qualcuno sublimandolo nella vita dei propri figli (schiere di mamme-amiche), qualcuno facendo l’attore, qualcuno decidendo di essere Peter Pan: un semidio che non invecchia, che vive in un’isola che non c’è mai stata, che lotta contro i pirati, che è amico delle fate e vola. Ma dietro la vitalità di Peter Pan e la sua luccicante Terra di Mai c’è un tempo sospeso, c’è la solitudine, c’è in fondo la non-vita (lo si dica piano…la morte). Il cattivo ha il corpo mutilato di Capitan Uncino, un despota adulto che ha una parte bambina ancora salda nonostante cerchi di negarlo e di ucciderla dandola in pasto ai pescecani; con la passione per i soprannomi e con una paura incredibile di un coccodrillo che fa tic-tac, con anzi il terrore negli occhi al solo sentire un lieve tic-tac-tic-tac…il tempo, il suo scorrere inesorabile.
Per tutti i bambini, di ieri e di oggi, sul palco ed in platea, la scena di Livermore non abbandona mai la dimensione del gioco: dai suoni ai voli, dalle musiche alle trasformazioni della pedana-nave-coccodrillo-casa; senza mai perdere l’ironia, sfruttando molti riferimenti attuali, per far felici anche i grandi, di oggi e di domani. In scena un trio esegue musiche originali dal vivo, mentre al “tavolo dei suoni” di volta in volta si creano, come in una fucina-cucina dell’udito, i rumori e con essi gli spazi: la fantasia dei suoni e delle azioni crea la scena, quella piccola e compatta delle camerette dei bambini, quella in bilico, ondeggiante di un galeone, quella fantasmagorica e inafferrabile dell’Isola di Mai. Tutti non-luoghi e non-tempi che esistono solo in funzione di qualcuno che li vive e li attraversa, che li fa risuonare e li agisce: esattamente come il Teatro, dove la distanza tra un’avventura e l’altra è pochissima e dove sono i corpi vivi e vitali di attori e pubblici a costruire la realtà dello spazio-tempo. Forse il segreto dell’eterna giovinezza sta proprio qui, nell’essere attore-artista o pubblico, ma di quelli che invecchiano senza diventare grandi e sono bersagli mobili per le ricerche di mercato.

NON E’ BELLO CIO’ CHE E’ BELLO, MA E’ BELLO CIO’ CHE PIACE, AL CERVELLO

L’Etologia Umana definisce l’Arte come un comportamento comunicativo e remunerativo. Le funzioni primarie delle diverse espressioni artistiche di tutte le società di tutte le epoche sono infatti due: trasmettere informazioni e gratificare il sistema percettivo. Sulla prima fondamentale motivazione si concentrano le scienze semiotiche e le varie semiologie. Il secondo e complesso compito di stimolazione e appagamento “sensuale” dell’arte è l’oggetto di studio di un recente ambito scientifico: la Neuroestetica. Tale disciplina si propone d’indagare i fondamenti, le ragioni neuro-biologiche dell’esperienza estetica. In ambito filosofico le domande intorno al bello, all’arte, al gusto ed al piacere generati dalle esperienze artistiche sono sorte contestualmente alle domande sull’uomo. Aristotele, Platone, Kant, Nietzche…i grandi del pensiero filosofico di tutti i tempi vi si sono soffermati. L’etologia umana dello scorso secolo, quella di Lorenz, Tinbergen, Eibl-Eibesfeldt, ha fatto emergere le costanti e le componenti universali delle espressioni artistiche, del bello per l’animale uomo. Grazie agli apporti metodologici ed alle scoperte neuroscientifiche intorno ai sensi ed alle percezioni la Neuroestetica si propone ora di delineare un quadro completo della creatività e dell’esperienza artistica, partendo dalle basi neurologiche, fisiologiche ed anatomiche del corpo umano.
Le arti visive sono il campo privilegiato della ricerca neuroestetica, ma anche in ambito musicale sono attualmente numerosi gli studi di neuromusicologia. V.S. Ramachandran ha elencato 8 principi che egli considera leggi universali della Logica dell’Arte. Le sue 8 Leggi dell’Esperienza Artistica raccolgono le principali strategie di stimolazione e gratificazione dell’apparato percettivo umano (soprattutto visivo). Il Principio del Massimo Effetto si manifesta nell’amplificazione dei tratti fondamentali dell’oggetto rappresentato; si ricorre spesso nell’arte ad un “superstimolo” in grado di stimolare una “super-risposta” (l’esagerazione grottesca delle tecniche caricaturali ne è un esempio). L’alta sensibilità della percezione umana a legami e raggruppamenti fra gli oggetti fa si che si sia portati ad apprezzare le relazioni, le continuità, le regolarità ed ad inferire ed a completare l’informazione quando interrotta (un tale principio fu l’oggetto anche della Psicologia della Ghestalt). Il gusto per le forme e per certe coerenze nella disposizione degli oggetti sarebbe dovuto a questo meccanismo. L’attività cerebrale è poi molto sensibile alle temporalità ritmiche e necessità di stimoli cadenzati per coordinarsi e “sintonizzarsi” con quella degli altri. L’isolamento di un singolo modulo e la necessità di allocare l’attenzione su di uno stimolo alla volta così come il bisogno di far emergere i contrasti sono due principi all’origine delle disposizioni spaziali figura-sfondo, dei cromatismi che mettono in risalto oggetti in opposizione ad altri. Il cervello umano è principalmente interessato al riconoscimento di regolarità o di differenze e da esso è fortemente gratificato; tutto ciò che è novità, informativo è ben accolto in quanto differenza. La simmetria rientra come principio base all’interno del gusto per la regolarità, per la sicurezza e la generalizzazione percettiva, in vista di un risparmio energetico notevole. L’adozione di un punto di vista generico ed il più vasto concetto di “generalizzazione” sono principi base a loro volta funzionali al principio d’astrazione ed a quello di metaforizzazione. La metafora e l’astrazione come modalità d’organizzazione dell’informazione hanno un forte potere di rinforzo sui processi cognitivi umani: sono economiche, concentrando in una sola immagine diversi e complessi significati, ed essenziali alla capacità umana di categorizzazione e quindi di produzione di cultura. Il cervello umano però ama anche le sfide e così la risoluzione dei problemi percettivi viene spesso inserita nelle opere d’arte come fonte di gratificazione e rinforzo per la mente.
Naturalmente la magia ed il fascino dell’arte risiedono anche e soprattutto nell’idiosincrasia, nell’unicità delle mani e dell’abilità di ogni artista. Il cuore ed il gusto estetico hanno a volte ragioni che la ragione ed i neuroscienziati non conoscono.
Per approfondimenti e diversi esempi di studi neuroestetici si faccia riferimento a Beauty and the Brain, Biological Aspects of Aesthetics, edited by I. Rentschler, B. Herzberger, D. Epstein, Birkhäuser Verlag, Basel, Boston, Berlin. Per gli studi di V. S. Ramachandran si veda il sito internet www.psy.ucsd.edu/chip/ramabio e l’articolo di V.S. Ramachandran e William Hirstein, The Science of Art, A neurological Theory of Aesthetic Experience, “Journal of Consciousness Studies”, n. 6, 1999.

AFFARI DI CUORE

“Nella solitudine dei campi di cotone”, testo del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltès, prematuramente scomparso nel 1986, è stato uno degli eventi in scena al Teatro Parma Festival dello scorso maggio, interpretato da Lino Guanciale e Mariano Pirelli, curato da Giovanni La Fontana. Un momento di sospensione delle grandi azioni sceniche, un momento di riduzione, concentrazione e raggrumazione delle tensioni in un piccolo spazio, un breve tempo, una luce bassa, una musica discreta. Un momento di lucida e tagliente verità sulle relazioni umane, non solo amorose. Godot forse non lo si aspetta più da tempo nel teatro contemporaneo, ma certo ancora si viene rapiti dal fascino dell’assurdo, del presagito, del sentimento d’attesa, del desiderio inappagato perché inappagabile. Il tutto declinato nella società dei consumi, in cui il valore delle cose, delle persone, delle situazioni si misura sullo scambio, non più sull’uso. Così l’occasione scenica, l’hic et nunc dell’evento teatrale, è una vendita, uno scambio, di natura indefinita e d’entità irrilevante. Un dealer, venditore, ed un buyer, compratore, legati indissolubilmente dalla loro stessa condizione, entrambi bisognosi l’uno dell’altro per esistere, s’incontrano. Soffrono in alcuni momenti, in altri sicuramente provano piacere. Ed infine si lasciano, nel buio. Nel tempo sospeso ed indefinito del crepuscolo, nel perpetuo gocciolare dei momenti, nello spazio incolmabile della solitudine, il pubblico assiste al loro scambio. Parole e qualche gesto di contatto, di fuga, qualche movimento d’avvicinamento, nella costante frustrazione dell’azione e dell’iniziativa. Koltès ha reso dialogo serrato il paradigma delle relazioni umane: l’eterna lotta tra chi insegue e chi si fa inseguire, chi ha ed offre e chi non ha e chiede, in un’altalena di posizioni di forza determinate da chi ha i bisogni più forti, da chi rifiuta e lascia spazi di contrattazione. Nel rapporto tra i due uomini in scena non sappiamo con precisione quale oggetto, condizione, situazione, siano materia di scambio, ma certo l’ora tarda, le luci lontane davanti e dietro di noi e l’esitazione dell’uno davanti alla fermezza dell’altro, e viceversa...le gambe che si divaricano, gli occhi bassi, l’imbarazzo e la malizia…E’ un rito che si ripete perpetuo ed efficace come solo i riti possono essere: l’eterno e paradossale gioco delle parti, cui nessuno di noi si può sottrarre. Uno spettacolo che lascia il pubblico e gli attori nella solitudine della loro umanità, nell’incomunicabilità e nell’insoddisfazione. Perché scambio non significa incontro, o meglio, non significa condivisione; perché non ci si può sottrarre alla lotta.

MORTE E RESURREZIONE DELL'UOMO

A Francoforte, dal dicembre 1963 all’agosto 1965, si svolse uno dei processi per crimini contro l’umanità dei gerarchi nazisti, delle Ss e dei medici, che gestirono il campo di concentramento di Auschwitz. 183 giornate, 409 testimoni, di cui 248 sopravvissuti al lager, che i Russi liberarono nel gennaio 1945. Fra il pubblico che assistette al procedimento giudiziario sedeva Peter Weiss, che annotò le dichiarazioni dei partecipanti e compose, con le esatte parole pronunciate in aula, il “dramma-documetario” che intitolò Die Ermittlung, L’Istruttoria. Fra i diversi modi di comunicare l’orrore Weiss scelse la Verità. La più meschina, gelida, inconcepibile, irrimediabile, ineluttabile Verità. Dal trauma della verità, di quella sul Nazismo e sull’Olocausto del popolo ebreo, la Germania e l’Europa tutta non si sono mai più riprese. Neanche gli americani, neanche il Vaticano. Da allora viviamo nell’ossessione del ricordo, più per disperata ricerca di catarsi che per monito ai posteri. Da allora si susseguono tentativi, disperati quanto il loro oggetto, di rendere conto e giustizia di quanto accaduto. Come se eventi di tale portata “accadessero”. Come fosse stato un cataclisma naturale. La terra è stata squassata e non è mai più stata la stessa, ma ci furono dei responsabili, con nomi e misure precise per le loro divise. Qualunque celebrazione della memoria è sempre in parte un tentativo di auto-assoluzione. Non c’è vergogna in questo, è legittima ricerca di pace.
Dallo spettacolo con cui Gigi Dall’Aglio porta in scena questo dramma però non esce assolto nessuno, né i personaggi in scena né il pubblico; non si esce sollevati dalle colpe n’è dall’angoscia di quello a cui si è assistito. Si lascia la sala in silenzio, senza applaudire, senza lo sfogo liberatorio a cui siamo abituati. Si assiste attoniti, come fecero i nostri nonni, i nostri padri in quegli anni, con la stessa sensazione di impossibilità. E’ impossibile, lo si racconta ma è impossibile. Eppure non c’è più spazio per i dubbi. Non c’è spazio per la pietà, verso chi ha assistito e chi assiste ora, seduto, a tutto questo. Neanche verso gli attori, da subito privati della loro libertà e della loro intimità, come i personaggi che stanno per interpretare, vittime e carnefici: il pubblico è condotto nei loro camerini, li osserva prima della recita e viene immediatamente spinto dentro un percorso a spirale di violenza. La Divina Mimesis di Pasolini nell’aria.
L’Istruttoria, spettacolo storico della compagnia del Teatro Due, in scena tutti gli anni con regolare ed inquietante regolarità dal 1984, sarà anche quest’anno allestito nello Spazio Bignardi del teatro dal 31 gennaio al 18 febbraio, in prossimità della Giornata della Memoria (27 gennaio). Lo stesso regolare ed inquietante ritmo drammaturgico che Weiss scelse per scandire il suo dramma. Un’oratoria in 11 canti, uno per ogni tappa che i deportati erano costretti ad affrontare, dal loro prelevamento da casa alla morte nei forni crematori. Durata reale: 9 mesi, quanti un detenuto-operaio medio resisteva prima di soccombere. Una sorta di Sacra Rappresentazione della Pasqua, del martirio dei capri espiatori d’Europa, di Via Crucis aberrante, di viaggio dantesco in inferi emersi. Personaggi: il giudice, il difensore, l’accusatore, 18 accusati, 9 testimoni anonimi, ognuno che impersona più di un testimone reale. Molti oggetti, che tengono il pubblico il più ancorato possibile alla realtà, alla quotidiana verità in cui tutto accadde. Ma ancora è difficile credere. Il rito si ripete ogni anno al Teatro Due. Nel dramma stesso con la medesima ritualità si avvicendano i personaggi e come nelle cerimonie sacre si cerca una credulità, una fede, un’adesione nel pubblico. Il Teatro efficace e rituale usa tutti i suoi mezzi. La recitazione degli attori è impeccabile. Ma il rifiuto della realtà spesso è più forte.
C’è qualcosa nell’Istruttoria del Teatro della Crudeltà, nelle parole atroci pronunciate; dello straneamento brechtiano, nei cartelli che appaiono in scena; del documentario, nelle precise informazioni fornite su materiali e tecniche di morte e tortura; della Sacra rappresentazione e del Teatro Sacro medioevale, come si è detto; del circo romano, nel massacro paradossalmente spesso vissuto come gioco dai gerarchi. C’è la nostra Storia, teatrale e reale. C’è l’Uomo in scena. E non potremo mai accettarlo.

-il canto della banchina arrivo e discesa dai treni dei deportati per la selezione per chi muore e per chi lavora
- canto del lager campo in generale
- canto dell’altalena torture per i prigionieri
- il canto della possibilità di sopravvivere descrive impiccagioni e i meccanismi con cui alcuni prigionieri privilegiati procrastinavano la morte collaborando in qualche modo coi carnefici
- canto della fine di lili tofler racconta un caso individuale
- il canto del unterscharfuerer Stark descrive i crimini di questo militare particolarmente crudele
- il canto della parete nera si riferisce al muro contro cui venivano fucilati
- il canto del fenolo descrive gli esperimenti medici mortali e dolorosissimi effettutati contro i prigionieri e la morte inflitta a molti con iniezioni di fenolo
- il canto del bunkerblock descrive i canili dove venivano rinchiui fino alla morte per fame e per sete i prigionieri detenuti e punti per qualcosa
- il canto del cyclon b descrive le camere a gas
- il canto dei forni descrive la distruzione dei cadaveri