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venerdì 8 febbraio 2008

CESAR BRIE: DAGLI APPENNINI A LOS ANDES

Vita, morte e arte in scena con un attore, un testimone, un esule,in giro per il mondo da quasi cinquant’ anni,che ha cose importanti da dire e le fa.


La memoria:
colui che ricorda, testimonia.
Ogni artista, ogni attore
Testimonia a un tempo arte, morte e vita.
La vita che ricorda,
la morte che lo attraversa,
l’arte che rivela entrambe.
(César Brie,
in César Brie e il Teatro de los Andes,
a cura di Francesco Marchiori,
Ubulibri, Milano, 2003)


Dalla Pampa, da Buenos Aires agli Appennini e poi dall’Italia alla Danimarca, ed ancora da lì all’Italia, ed ora alle Ande, a Yotala in Bolivia. Ha viaggiato una vita da esule César Brie, straordinario uomo di teatro argentino, rifugiato politico in Europa per più di vent’anni e poi finalmente tornato in Sud America, in Bolivia, il paese che lui stesso definisce il più sud americano di tutti, con il 70 % di popolazione indigena ad una storia di sfruttamento coloniale e d’impoverimento molto dura. Vive lì, ad altissima quota, dove l’aria è rarefatta ed alla fatica ed al fiato corto ci si deve abituare, con la sua comunità teatrale, Il Teatro de los Andes; con loro crea spettacoli da più di dieci anni, con loro, attori di tutto il mondo che s’incontrano in seminari, studi, residenze, interroga e assorbe le straordinarie tradizioni boliviane, aiuta la cultura e lo sviluppo del paese, crea opere intorno a pensieri. Storie, momenti, sentimenti da raccontare, cose da dire e da fare, con il corpo e con la voce.
Fuggito nei primissimi anni ’70 dalla sua Buenos Aires, dove è nato nel 1954, Cèsar Brie ha iniziato prestissimo, a 17 anni, la sua vita di testimone, d’attore. Il bisogno di comunicare lo spinse in scena, in un momento molto infausto per la libertà d’espressione e per l’arte nel suo paese. La dittatura argentina di quegli anni ostacolava con ogni mezzo ed ad ogni costo chi come lui, e i suoi compagni della Comuna Baires, si dedicava alla testimonianza, alla cultura ed ai sentimenti, recitando. Costretti ad abbandonare l’Argentina per le persecuzioni, gli attori della comunità teatrale guidata da Renzo Casali, portarono il loro lavoro di ricerca intensa e radicale in Italia, dove Brie li raggiunse alla fine del ‘74. Iniziò così una vita da esule che lo avrebbe portato a girare l’Europa e di nuovo l’America Latina, sempre lontano dalle sue origini, dalle sue radici. Con la Comuna Baires mise in scena in Italia, in Francia, in festival e teatri europei lo spettacolo dal titolo Water Closet ed in collaborazione con alcuni gruppi politici della sinistra rivoluzionaria ed operaia Washington Washington. L’esperienza comunitaria in esilio durò poco, le relazioni all’interno del gruppo si rovinarono e Cèsar si separò dai compagni per creare insieme ad altri giovani attori a Milano il Collettivo Teatrale Tupac Amaru (tra loro anche il giovane Danio Manfredini). Lavorava nei centri sociali, immerso nelle realtà più dure di quegli anni di protesta in Italia. L’attività di ricerca e sperimentazione attorica era intrinsecamente legata a quella di libertà, spazio, affermazione della differenza, lotta sociale e civile. Durante tutti gli anni ’70 Brie portò in giro per l’Italia la sua testimonianza, la sua attoricità e le fece incontrare con gli uomini e le donne della ricerca teatrale italiana di quegli anni, con quel Terzo Teatro che si stava affermando nel clima di ribellione ed effervescenza sociale più aspro e controverso della storia del nostro paese. Erano gli anni di Se nulla succede e A rincorrere il sole. L’incontro e l’amicizia con Antonio Attisani lo portano ad una collaborazione con la rivista teatrale da lui diretta, “Scena”. Cruciali per la sua vita artistica anche l’incontro con Grotowski e Cieslak alla Biennale di Venezia ( 1978/79) e soprattutto con Eugenio Barba (1980), il suo gruppo teatrale Odin e con l’attrice Iben Nagel Rasmussen. Sarà lei a determinare una svolta nella vita e nell’arte del giovane César. Con lei stringerà un sodalizio artistico e di vita e con lei imparerà, come egli stesso ha affermato, tutto quello che sa sul lavoro dell’attore. Il gruppo che li vide recitare insieme si chiamò Farfa; con loro altri attori dei gruppi di base della ricerca italiana ed internazionale, fra cui Pepe Robledo e Pippo Del Bono. Il gruppo lavorò intensamente, in giro per il mondo, mettendo in scena Heridos por el viento e lo straordinario Matrimonio con Dio, spettacolo basato sulla vita del ballerino Vaclav Nijinskij, che vide in scena la Rasmussen e lo stesso Brie. Di entrambi e solo loro anche lo spettacolo Il paese di Nod, una riflessione sull’esilio che diverrà motivo dominante nella poetica di César. Per tutti gli anni ’80 César si affianca all’Odin ma non si integra al gruppo danese di Barba, pur vivendo nella loro sede di Holstebro. Non fu mai infatti nell’Odin come elemento, attore stabile, prese parte solo a Talabot. Lasciò la Danimarca nel ’90, per tornare in Italia e cercare da solo e con altri attori vicini alla sua poetica, nuovi modi, nuove voci da portare in scena. Primo grande frutto delle trascorse esperienze sarà Il Mare in Tasca del 1989. Creò poi un Romeo e Giulietta con Naira Gonzales, l’ultimo spettacolo creato in Europa, intenso e complesso con testi di diversa provenienza ed un’ambientazione greca. Finchè il bisogno di tornare alla dimensione da cui era partito, alla lingua con cui era nato, ai luoghi ed alla gente a cui in qualche modo apparteneva, ebbero il sopravvento. Finchè il mestiere di testimone esule che ormai aveva assunto su di sé non lo spinse a risparmiare soldi, forze, energie e pensieri ed a portarli tutti, in poche valigie, in Bolivia. Partì nel 1991, con Naira Gonzales e Giampaolo Nalli, lasciando trascorrere un anno di peregrinazioni sceniche, portando in giro spettacoli, cercando stimoli e persone, facendosi conoscere e conoscendo. In Bolivia Brie rimane un esule, lì diviene un testimone lucido e cruciale della vita di molte persone, personaggi, delle ansie, delle gioie e delle paure della gente; in Bolivia da attore continua a raccontare, da uomo continua a lottare, e viceversa. La vita e l’arte fuse, compenetrate. L’impossibilità del ritorno vissuta come una risorsa, come un’opportunità. La scoperta che l’esilio non finisce mai, che è una condizione irreversibile. La necessità del ricordo che si fa pressante. Il continuare a porsi domande pertinenti, dice Brie, e non aver paura di non sapervi rispondere. Così, con poche essenziali linee d’azione, nasce il Teatro de los Andes, che ha creato negli ultimi dieci anni numerosi spettacoli, coinvolto pubblici di tutte le lingue, le nazioni, le culture, le condizioni sociali. Da Ubu a I Sandali del Tempo, da Colon a Solo gli ingenui muoion d’amore. Il Teatro de los Andes ha così dato vita ad un’esperienza unica, è una comunità artistica che vive di dedizione e passione per il teatro e che con esso dà voce, carne e mente alla memoria ed ai sentimenti del popolo boliviano, e non solo.

INTERROGANDO LA SCENA E LA VITA DI CESAR BRIE
Davanti alle persone le cui vite, le cui biografie scorrono negli immensi alvei della Storia, hanno la forma della Storia e ne seguono il corso maestro, senza essere capi di stato, imprenditori di colossi economici, eroi di guerre lontane, davanti a queste persone io sempre rimango allibita. E nutro un sentimento a metà tra l’ammirazione e la totale estraneità, tra l’invidia e la paura. Persone che non hanno salvato vite o guidato popoli, ma che si sono fatte carico in qualche modo in prima persona degli Eventi. Niente di eroico in senso tradizionale. Persone con una causa, un motivo al di là di sé stessi, condiviso con altri.
César Brie è una di queste persone. Ha dato un senso alla sua vita ed alla sua arte, ha dato un senso alla sua vita con l’arte e ha dato un senso all’arte con la sua vita. César Brie è un attore che da sempre vive in esilio dal suo paese d’origine e che da sempre attraversa i continenti, gli stati, i gruppi e le comuni, le vite degli altri, pubblici anonimi o compagni, per parlare loro di vita, morte, arte. Ed in questa condizione, d’attore, testimone, apolide, viaggiatore, vive da 52 anni. Lo ho incontrato a Parma nell’ambito della retrospettiva a lui dedicata dal Teatro delle Briciole, che quest’anno per tutta la stagione ha pennellato ritratti dei diversi teatri contemporanei, lasciando ad ogni attore o gruppo lo spazio di espressione di più di un allestimento. Perché il pubblico sappia chi c’è in scena. Ed in scena ai primi di aprile c’era appunto César Brie con i suoi Fragile ed Otra vez Marcelo.
Rimango sempre molto colpita quando incontro qualcuno che per tutta la sua vita si è dedicato e si dedica alle sue passioni, che segue un interesse ed un sogno alti con tenacia e perseveranza. Tu hai dovuto affrontare molte difficoltà, l’esilio soprattutto, ma anche la sopravvivenza nel sistema teatrale europeo. Come si fa a vivere una vita per il teatro, come è stato possibile per te sentire una vocazione così forte che ti ha portato a vivere un’esistenza per l’arte?
Ma sai, uno non ci pensa a quanto è duro, uno vive quello che gli capita. Io avevo il bisogno di esprimermi. Non so se era una vocazione o lo è diventata quella per il teatro. Ho scelto il teatro ma forse non è il mezzo più adeguato per me. Mi ha costretto a studiare e a formarmi, poi insieme a quello c’è stato il prezzo da pagare, che non è mai stato in soldi ma in vissuto, in perdite: in questo caso in un esilio. Ma su queste cose non rifletti mentre le vivi. Le vivi e basta e vai avanti. Ho pensato di smettere di fare teatro nel momento in cui ho pensato che non ero bravo, dopo 7 anni; sentivo che non ero in grado, che facevo cose brutte. Proprio in quel momento è arrivato il primo spettacolo buono che ho fatto. E questo mi ha cambiato l’esistenza; da lì è stato tutto un provare e riprovare, cercare, tentare, rischiare, investigare. Il secondo forte momento è stato quando ho deciso di tornare in America Latina, perchè ero stanco del primo mondo e di lavorare per un pubblico che non capivo, con cui non avevo più un rapporto ed un contatto. Invece a me interessava ed interessa lavorare sapendo per chi lavoro. E poi c’era il problema della lingua: la mia lingua madre è lo spagnolo e avevo bisogno dopo tanti anni di riutilizzarla. Così sono andato in America Latina, in Bolivia, che è il posto più difficile ed ostico del continente, dove la vita è più dura, dove ero di nuovo un emigrante. Fino ad adesso è andata bene!
Perché avete portato in tournee in Italia proprio questi due spettacoli, Fragile ed Otra vez Marcelo? Sono all’apparenza molto lontani tra loro, uno su di una bambina che lotta contro un mondo di adulti con le sue idee i suoi sogni adolescenti e uno su di un uomo che lotta contro un sistema, contro la politica marcia del suo paese, contro l’imperialismo straniero e l’impoverimento della sua gente, fino alla morte. C’è un motivo particolare per questa decisione?
Erano quelli che avevamo in repertorio e che non erano mai stati portati in Italia. Fragile non è nuovo, è stato realizzato tre anni fa, ma poi è partita un’attrice e per un po’ non lo abbiamo più portato in scena; lo abbiamo ripreso solo ora. Il pubblico Italiano non li aveva ancora visti e ci sembrava il motivo più valido.
Come ti trovi a venire in Italia ad allestire i tuoi spettacoli davanti ad un pubblico che condivide poco o niente con le condizioni e le persone in cui e con cui sono stati realizzati in Bolivia? Il primo mondo ed il terzo sono in fondo due realtà parallele che si toccano poco, come fai a tornare qui e recitare all’interno del sistema che hai lasciato anni fa?
Non sono d’accordo. Il pubblico è fatto di persone e le persone che vanno a teatro hanno un interesse, hanno una cultura, hanno un bisogno. E’ un bisogno che certo non ha chi resta a casa a vedere la televisione. A teatro vengono persone sensibili, che meritano il lavoro che gli viene proposto, persone per le quali vale la pena lavorare. E’ molto bello verificarsi qui con la gente anche se è anche molto diverso rispetto alla Bolivia. Ma non cambia poi tanto: ciò che c’è di veramente differente sono le condizioni economiche, ma non quelle morali od etiche. Queste sono condizioni che hai dentro, ce le hai o non ce le hai, qui o nel terzo mondo. Ci sono energumeni ovunque, persone di valore ovunque. La condizione economica non determina tutto, è una circostanza, ma le persone sono persone sempre, nell’indigenza e nell’abbondanza. Là è molto bello lavorare con la gente ma anche qui i ragazzi che cercano di fare teatro sono forti, molto generosi. Si trovano situazioni splendide anche qui. Le persone attraversano e sono attraversate dalle loro condizioni economiche e sociali, ma queste sono solo una parte del tutto. Ad esempio qui siamo in un teatro splendido (n.d.r. Teatro al Parco, Parma), che fa spettacoli molto belli, dove le persone lavorano tantissimo, un luogo che è dedicato all’arte e non si può non tenere conto che esista. In Bolivia queste realtà ci sono meno. Non credo che il Teatro delle Briciole non abbia dovuto lottare per realizzare le sue stagioni, questa è la verità.
Boris Vian, l’autore del racconto a cui in parte s’ispira Fragile, scriveva: “non vorrei crepare prima di aver scoperto se la luna dietro la faccia di vecchia moneta ha una parte puntuta, se le quattro stagioni sono poi veramente quattro…”. Tu cosa desideri ancora fare, cosa vuoi realizzare, quale piccolo o grande progetto rimane dentro di te come un sogno o come un obbiettivo concreto?
Io sono un artista e vorrei continuare a fare quello che faccio da sempre. Vorrei scrivere più opere, produrre ancora commozione nella gente. Il mio mestiere è questo, vorrei fare qualcosa che possa ancora scuotere ed inquietare tutti. Non sempre ci riesco, ma ci provo sempre.
Terrai a Mira un Seminario e sarà anche l’occasione per portare avanti una residenza con alcuni allievi lavorando su Zio Vanja di Cechov, ce ne vuoi parlare ed anticipare qualcosa?
Non parlo mai delle cose che ancora non ho finito. Farò un seminario e una residenza con un gruppo allievi con cui ho lavorato a l’Aquila un anno e mezzo fa. Adoro Cechov e non ho mai avuto il coraggio di montarlo e ora credo sia giunto il momento di farlo. Il gruppo di attori italiani ha portato avanti nell’ultimo anno il lavoro in base alle indicazioni ed alla riflessione emerse nel seminario fatto. Avevo promesso loro un aiuto e ora che ho visto dove sono arrivati posso riprendere. La regia è fatta da me ed Isadora Angelici, un’allieva ma anche una brava regista.
Com’è stato invece portare in scena ed interpretare la vita di Marcelo, una persona e non un personaggio, che ha vissuto intensamente nel nostro secolo? Immagino che tra l’interpretazione per esempio di Amleto e delle diverse persone vissute, esistite, che hai portato in scena nei tuoi spettacoli passati, ci sia una considerevole differenza.
Recitare la parte di una persona e non di un personaggio è certo più difficile perchè devi stare sempre nelle righe, soprattutto in questo caso in cui sono ancora vive le persone che lo hanno conosciuto. Su un personaggio storico non puoi raccontare balle, ma puoi novellare, cambiare qualche cosa romanzandola e io l’ho fatto. Ho preso certe cose successe e le ho fatte diventare più forti, per creare dei fili che mi permettessero di realizzare la costruzione drammaturgica e scenica. Ho messo l’accento su certi elementi. Ma siamo sicuri che Amleto non sia esistito? E’ una costruzione certo, ma è diventato un paradigma reale; anche l’arte è reale, fa parte della realtà e da un certo punto di vista ci si misura con i personaggi allo stesso livello della biografia di qualcuno esistito. Dall’altro lato capita che si prenda dalle vite vissute elementi d’arte, e le si faccia diventare una novella, una storia, non più così perfettamente reale. Non ho provato ad assomigliare a Marcelo nel suo modo di parlare e nella sua gestualità, ho cercato di rimanere me stesso. Ho voluto questo, perchè c’è molta gente che lo ha conosciuto e non volevo avvicinarmi nel modo sbagliato a qualcuno che io non ho mai incontrato personalmente. Ho cercato di prendere la sua essenza, l’essenza della sua storia e della sua vicenda personale, ma questo non significa rifare esattamente in scena tutto il suo vissuto. Ho estratto il paradigma. Ma in fondo anche davanti al testo di Amleto ci vuole cautela, rispetto, devozione, non lo puoi cambiare se non sei un grande, solo pochi ci sono riusciti, per esempio Carmelo Bene.

PER UN’ESPERIENZA CON CESAR BRIE: “PENSARE LA SCENA”
A Mira, in provincia di Venezia, il Teatro Villa Dei Leoni ha dedicato due mesi di eventi e riflessioni al lavoro di César Brie e del Teatro de los Andes. Dopo gli spettacoli e gli incontri di aprile, il mese di maggio vedrà ancora gli spazi del teatro occupati da due importanti occasioni di scambio e di incontro con l’artista argentino ed il suo gruppo multiculturale. Per due settimane ci sarà infatti la possibilità di partecipare ad un lungo seminario diretto da Cèsar Brie. Un’occasione di vivere la scena come luogo d’incontro, di consapevolezza profonda, di sé e degli altri. Il lavoro sarà basato su una dimensione corale e condotto attraverso un training fisico e vocale con cui generare immagini sceniche evocative ma dirette ed essenziali. La scena vive di essenzialità ed al centro c’è l’attore e la sua presenza intensa. Sarà approfondita anche la necessità del ritorno alle origini, di un contatto rinnovato con le radici tradizionali della propria cultura e della propria lingua. Cesar dice del suo modo di pensare la scena: “un teatro dove tutti i morti appaiono, dove il tempo si annulla, dove ti vedi bambino, un luogo di alchimia sorprendente per compiere un viaggio attraverso il tempo, il ricordo, la memoria.”
Il seminario si terrà dal 15 al 18 maggio e dal 22 al 25 maggio, presso il Teatro Villa dei Leoni, Riviera Silvi Trentin n. 3, Tel. 041 4266545, info@teatrovilladeileoni.it, costo: 150 €, iscrizioni entro il 12 maggio.
Sabato 27 maggio lo stesso teatro ospiterà l’allestimento di “Zio Vanja” di Cechov, esito scenico aperto al pubblico della residenza con un gruppo di attori italiani che si terrà dal 13 al 27 maggio.

TOURNE’ ITALIANA: Un’ otra vez Cesar Brie, sguardi su un’umanità fragile
Cesar Brie è tornato in Italia, per qualche mese, con due produzioni del suo Teatro del los Andes, in collaborazione con Emilia Romagna Teatro: Otra vez Marcelo e Fragile. E ci racconta, con poesia e passione profondamente sudamericane, le due inscindibili dimensioni della vita umana: la forza e il coraggio adulti delle proprie idee, fino alla morte-martirio, e la fragilità, la delicatezza ingenua dei sogni e degli ideali giovanili, che ne sono la necessaria premessa, il passato adolescente. Come se in qualche modo l’adolescenza ed una vita adulta e di importanza politica partecipassero della stessa sostanza: la difesa di sé, dei propri ideali e del proprio mondo. Il teatro di ricerca ancora una volta è opposizione civile, rivendicazione ed atto politico-umanitario. Ancora una volta, ma con meno fermezza, più fragilità, attenzione ai sentimenti ed alle emozioni più intime, di una ragazzina o di un uomo politico e di governo e della sua compagna di vita.
Otra vez Marcelo è il “monumento scenico” che il Teatro de los Andes ha dedicato a Marcelo Quiroga Santa Cruz, intellettuale boliviano (autore de “Los deshabitados”, romanzo con cui vinse il premio Faulkner) barbaramente sequestrato, torturato e assassinato durante il colpo di stato del 1980. Marcelo fu un parlamentare che si oppose alle dittature di Barrientos e Panzer e che pagò con la vita il suo impegno politico. Dopo 26 anni il suo corpo ancora assente getta un’ombra inquietante e scabrosa sulla debole democrazia boliviana. Lo spettacolo è l’ultimo momento della trilogia “politica” del gruppo sudamericano, iniziata con “Iliade”, una meditazione sulla guerra e sull’uso della forza e proseguita con “Dentro un sole giallo”, opera dedicata alla catastrofe naturale (un terremoto) e alla corruzione che si abbatterono sulla Bolivia nel 1998. Dice Brie citando il poeta argentino Roberto Juarroz che “Pensare ad un uomo significa salvarlo”. Ed è questo bisogno di testimonianza e salvezza, riscatto e vivificazione che Brie porta in scena attraverso un montaggio intimo dei discorsi e delle parole politiche di Marcelo, delle sue conversazioni con l’adorata moglie Cristina, le sue foto, immagini di vita pubblica e privata proiettate sulla parete. In scena Brie è Marcelo e Mia Fabbri è Cristina. Attraverso il dipanarsi della loro storia d’amore esemplare, iniziata a 12 anni e durata una vita, il pubblico è condotto lungo il filo della Storia politica del paese: i due innamorati si incontrano, si frequentano e si sposano, cercano di vivere insieme nonostante le forzate separazioni, il tutto sullo sfondo della tragica situazione sociale e politica boliviana, che emerge con sempre più violenza, fino ad invadere ed assorbire completamente le loro vite. Ancora una volta Brie porta in scena il tema dell’esilio e della lontananza forzata, della brutalità con cui i grandi eventi possono lacerare l’intima e quotidiana dimensione dei sentimenti e delle emozioni delle persone. Ne emerge un ritratto intenso ed appassionato, commovente e toccante, di un uomo che ha lottato con tutte le proprie forze per la libertà del suo paese, anche grazie al sodalizio profondo con una donna che gli restò vicino nell’esilio e nelle persecuzioni. Con immagini, corpi e voci splendidamente poetici e concreti, con una scena semplice, essenziale ma capace di trasformarsi costantemente.
Fragile è uno spettacolo scritto e diretto da Brie con Maria Teresa del Pero (ed il resto del gruppo). I testi sono tratti dal romanzo di Paola Masino del 1935 “Vita e morte della massaia”, che con sguardo ironico e cinico riflette sull’oppressione dei sogni e sull’assurdità delle più ricorrenti situazioni domestiche e familiari, e da brani di Boris Vian, eclettico poeta francese scomparso più di cinquant’anni fa. Due autori che, ciascuno a suo modo, sono stati dei difensori dell’infanzia e dell’adolescenza: della sua dimensione immaginativa, dei suoi sogni, delle sue domande più assurde e delle sue risposte paradossali. La protagonista è Lucia, una bambina che vive in un baule per non diventare grande. Ha paura Lucia degli adulti che le stanno intorno ed ha nei loro confronti una sorta di pena; ha paura di diventare come loro e di “seppellire i sogni con le abitudini”. La fragilità di Lucia sta nelle sue domande, nella sua ricerca di senso in una realtà adulta e meschina e nella difficoltà di difendersi, di proteggere il suo mondo. Religione, sessualità, scuola…si tocca ogni ambito della vita “normale” di una “persona”, quella persona normale che tutti si aspettano che Lucia diventi, secondo le presuntuose logiche adulte dell’educazione. E Lucia in un certo modo accetta infine tutto questo, non si piega ma piuttosto asseconda un bisogno dei suoi genitori. Con la vicinanza e la presenza costante di un nonno ormai morto ma che può sempre essere evocato, l’unico adulto che ascolta, segue, osserva veramente. Delicato e leggero, malinconico e sorridente, lo spettacolo ci ricorda come il Teatro sia un luogo salvifico e salvo, dove non si temono le emozioni, ed anzi le si affronta con lo spirito d’avventura e ricerca dei nostri anni piccolini. L’infanzia è la dimensione del gioco, del “come se”, della fantasia e solo gli artisti, gli amanti e quelli che restano un po’ adolescenti possono continuare a goderne, continuare a nutrirsene.
PER SAPERNE DI PIU’:
BIOGRAFIA E TEATROGRAFIA: César Brie e il Teatro de los Andes, a cura di Francesco Marchiori, Ubulibri, Milano, 2003.
SITO DEL GRUPPO- TEATRO DE LOS ANDES: http://www.utopos.org/losandes/andes.htm

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