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sabato 2 febbraio 2008

DI QUANDO UN GENNAIO NEBBIOSO HO INCONTRATO IL TEATRO, DI NUOVO -

20 gennaio 2008 - Jean Marie Pradier definisce l’attore “un uomo transizionale”, mutuando il concetto dagli studi di psicologia infantile di Winnicott, che individuò nel comportamento dei bambini il comune bisogno di “un oggetto transizionale” per comprendere, elaborare e modificare la realtà circostante. L’oggetto transizionale, una bambola, una coperta, un animaletto di peluche, ha diverse funzioni più o meno consce ma soprattutto permette al bambino di proiettare sé stesso su un’entità altra, di prendere le distanze dal suo Io, guardarsi agire sul mondo, disinnescando molto del potenziale negativo d’alcune situazioni altrimenti troppo difficili da gestire, sollecitazioni troppo intense da sopportare. L’attore è dunque una sorta di oggetto transizionale animato e vivente; attraverso di lui lo spettatore può vivere e rivivere eventi e sentimenti, fare esperienza di stati d’animo ed emozioni in modo vivido ed intenso, rendendoli innocui e sicuri grazie alla cornice teatrale, al patto scenico, alle salvifiche convenzioni che la quarta parete porta con sè. Per questo a teatro è possibile assistere ad infanticidi tragici di madri folli, ad incesti inaccettabili, a morti insensate di bambine mandate a mendicare la notte di capodanno, assiderate dal gelo dell’aria e dell’indifferenza degli adulti. La piccola fiammiferaia realizzata da Cà luogo d’arte, con la regia di Maurizio Bercini ed il testo di Marina Allegri, è uno degli spettacoli che nella mia esperienza più di tutti riesce a portare ad estreme conseguenze poetiche, comiche, drammatiche e pedagogiche questo splendido meccanismo, abbattendo il tabù della morte in scena davanti ad una platea di bambini, disinnescando l’atrocità della fiaba di Andersen con l’abilità tecnica di scenografi e pittori, con l’intensità attorica di Alberto Branca, Daniela D’Argenio, Massimiliano Grazioli e Claire Chevalier, con trovate meta-teatrali, musiche suggestive ed una bambola di pezza dai capelli rossi. In questo spettacolo, in cui il tema richiede una precisione da artificieri per evitare che la bomba emotiva esploda, all’uomo transizionale è dato un aiuto in più: un oggetto, transizionale anch’esso, per passare ad un secondo e più sicuro livello di distanziazione. La protagonista della vicenda, la piccola Claire, si sovrappone alla protagonista della fiaba, la piccola fiammiferaia (che non ha nome, è una dei milioni di bambini sofferenti del mondo) nei capelli, negli abiti, nella biografia, nello spirito, lasciando però che sia la bambola ad affrontare i momenti più tragici della vicenda. L’effetto è intenso e commovente, mai straniante. Tutto lo spettacolo è una riflessione sulla possibilità di portare in scena la morte, con la sincerità e la sfrontatezza di chi non tratta i bambini con condiscendenza né con indifferenza, ma grazie all’enorme esperienza maturata nel teatro ragazzi ed al genio artistico sa parlare loro guardandoli in faccia ed usando le parole giuste. La piccola fiammiferaia diviene in qualche modo una summa ed un compendio di ciò che è o dovrebbe essere il teatro per le persone, del suo valore sociale ed intimo nelle nostre vite di spettatori: un momento unico ed irriproducibile, l’occasione di fare esperienza, in modo sublimato e protetto, delle forze positive e negative che regolano le nostre esistenze. Una palestra emotiva, dove imparare a ridere e a piangere senza remore, “prendendo il toro per le corna”. Sono molti gli elementi ed i fattori che rendono questo spettacolo più efficace di altri nel generare tutto questo. La scenografia e tutto l’allestimento costruiscono una dimensione altra, parallela: varcata la soglia di velluto della scatola scenica, del teatro del teatro, tutto ciò che non è tale rimane fuori e la realtà prende le dimensioni delle panchette e dei piedini dei piccoli o ex-piccoli spettatori. I costumi poi, antichi come lo sono certi scialli, certe cuffiette, e sorprendenti come possono esserlo certe stufe canticchianti o certe oche danzanti, certi alberi di natale elettronici e generosi, certe paiettes scintillanti. Trovate registiche e testuali che non meritano di essere aridamente elencate, ma di cui si può rendere conto dicendo del generale appagante effetto di comicità, poesia, ironia. Le interpretazioni degli attori fanno il resto, cioè molto. Claire, la protagonista francese, parla al pubblico ed ai suoi superiori con un accento straniero che la rende esotica e lontana, nel tempo e nello spazio, sperduta ed eterea, infreddolita e gracile per davvero, con una voce e dei modi unici, mai visti né sentiti fuori da lì. Gli adulti della storia sono frettolosi, indifferenti, perplessi ed Alberto, Daniela e Massimiliano si muovono da un lato all’altro della scena, dietro e davanti la costruzione, entrano ed escono da camicie o gommapiuma velocemente così come ironicamente e con grande versatilità diventano all’occasione frivoli, serissimi, dolci e romantici, freddi ed arrabbiati. Con un piglio ed un’energia che riempiono il piccolo proscenio, trabordano sulle strade innevate di una stradina notturna, ti seguono all’uscita ed oltre. Finisce nei migliori dei modi La piccola fiammiferaia di Cà luogo d’arte: nulla è accaduto per gli adulti, per quelli cioè che non si lasciano trascinare dal gioco scenico e che non sopportano che si parli di morte, specie quella di bambini poveri ed abbandonati. Non è accaduto nulla, almeno che non si sia stati capaci di guardare lo spettacolo con gli occhi curiosi e liberi di chi vuole abbracciare la propria bambola di pezza e parlarle per dirle ciò che a sé stessi si fa fatica a confessare. Almeno che non si sia stati in grado di abbandonare la fretta, lo scetticismo e l’indifferenza, per immergersi in una storia che molti ritengono irraccontabile, deprimente e senza alcun insegnamento. C’è la nonna laggiù che ci aspetta, e se lo dicono loro io ci credo, la saluto e riesco a sorridere di nuovo.

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