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venerdì 8 febbraio 2008

PIU' PORCI DELPORCO

Pirandello avrebbe, credo, amato l’allestimento del suo racconto e testo teatrale La Sagra del Signore della Nave, realizzato da Vincenzo Pirrotta, andato in scena al Teatro Due lo scorso novembre. Lo avrebbe amato per due motivi, gli stessi che hanno entusiasmato il pubblico in sala: perché spettacolo corale fatto d’individualità forti e carismatiche, e perché capace di creare una dimensione grottesca, onirica e primordiale che non tradisce ma anzi esalta il senso del testo. Ai piedi di una chiesa, più che altro una piramide azteca; in una piazzetta di paese nell’agrigentino, spazio sacro, tribale, totemico, decorato da ex-voto, feticci di stracci e corda; in un tempo indefinito, che ha dettagli novecenteschi, medioevali ed ancora primordiali; in una Sicilia in cui il dialetto è lingua, espressione intensa dello spirito del suo popolo…in tutto questo si muovono, cantano, danzano, dialogano i personaggi surreali diretti da Pirrotta. Triviali e clowneschi, sguaiatamente popolani, dandy o arricchiti, macellai, marinai, medici, avvocati e notai, allevatori, ciascuno a suo modo si confronta con domande elevate sulla natura animale e su quella umana, sul sacro e sul profano, sul valore dell’immolazione. Al centro, alternativamente, il maiale, vittima della scanna novembrina ed il Cristo, Signore della Nave, sacrificatosi anch’egli per pascere l’umanità tutta: il sacro e il profano che si sovrappongono, la bestialità e la natura animale dell’uomo che emergono con forza nella vita sociale, si scontrano e si ricompongono. Ed è così che in croce si trova inchiodato un suino squartato e scuoiato, ed è così che in processione su una lettiga viene portato un piatto di spaghetti al sugo, così che le litanie di preghiera vengono recitate intorno alla testa del porco. Di questo spettacolo colpisce la cura dei dettagli, la creazione densa e intensa di un immaginario, di uno spazio-tempo in cui tutto, dai costumi eccezionali, alle musiche dal vivo vincitrici degli Olimpici del Teatro 2006, alle scenografie ed alle prove attoriche di valore, contribuisce con coerenza ed efficacia e generare quel senso di eccesso, esasperazione, amplificazione, “effervescenza sociale” a cui i sopiti sensi contemporanei non sono più molto abituati ad assistere, per lo meno dal vivo. Visioni e personaggi che sono opere di Botero, che sono scene di antica Commedia dell’Arte, che sono composizioni di Bosch, maschere apotropaiche fenice, danze tradizionali…scene di una tribalità che assumma qualunque archetipo accumulabile, intorno a un Cristo “Che più Cristo di così non lo si poteva fare”. Di questo testo, purtroppo raramente frequentato, colpisce e affascina l’incredibile capacità di sollevare questioni e domande di portata millenaria ed universale, senza mai esplicitarle e tradirle con banale moralizzazione. Dalla discussione sulla superiorità dell’uomo sul maiale, sul proprium umano e su quello animale, Pirandello porta la riflessione a toccare temi come l’opulenza della società borghese, la bestialità umana davanti ai propri bisogni primari, la distinzione a volte labile tra sacro e profano (diade, secondo Durckheim, all’origine del concetto stesso di religione), il senso e il ruolo universali del capro espiatorio e della vittima sacrificale (cardine delle società e necessario momento di violenza espressa, secondo Renè Girard).
Una vera “lezione d’umanità” a noi “tutti più porci dei porci”, in cui s’apprendono e si riconosco i limiti della nostra specie “imbestiata”, godendone a tratti, più spesso vergognandosene. Si esce dalla sala almeno sollevati dalla consapevolezza che ci sia fra noi qualcuno capace d’arte, d’intelligenza e in grado di riconoscere e mostrarci i falsi dei a cui incoscienti ci prostriamo.

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