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venerdì 8 febbraio 2008

LA MENTE ED IL SUO DOPPIO (TEATRALE):I TEATRI DELLA MENTE E LA MENTE DEL TEATRO

Quando si parla di Mente e Teatro il pensiero corre subito all’immedesimazione, quella dell’attore nel personaggio che interpreta o quella del pubblico nel personaggio che vede interpretato. Il pensiero corre a quel senso di trasporto e coinvolgimento che chiunque sia stato in un pubblico teatrale ha provato, che fa agitare sulla poltrona o che, come disse Amleto, porta l’attore alle lacrime, “per cosa? Per niente, per Ecuba”, per fantasie. Certo il mistero dell’arte della scena ha molto a che fare con questa “magica” capacità di creare una dimensione congiuntiva, parallela alla realtà indicativa. Il Teatro è il dominio del “come se” ma produce nei corpi coinvolti effetti indiscutibilmente veri. Volendo scendere in profondità però la questione si dimostra essere ben più complessa. Da Dove viene questa empatia, non solo emotiva ma spesso cinetica, che si prova in platea e da dove viene la vocazione alla recitazione, la straordinaria capacità di creare la congiuntività? Come funzionano? Perché si manifestano e che motivi ha l’uomo per esserne dotato? Cosa possono dirci sulle origini delle arti sceniche e sulle loro ragioni sociali ed evolutive? Domande per le quali numerosi studiosi di diverse discipline cercano risposte esaustive. Ha scritto Antonin Artaud: “…Il Teatro è un atto sacro, che impegna tanto chi lo vede che chi lo esegue…l’idea psicologica fondamentale del teatro è questa: un gesto che si vede… ha lo stesso valore di un gesto che si fa.” Questo è uno dei Messaggi Rivoluzionari (ed. it. a cura di Marcello Gallucci, Monteleone, Vibo Valentia, 1994, p.146) che uno dei padri della scena moderna lanciava nel 1936, portando la riflessione in merito al teatro sul vero ed attuale centro d’interesse della nuova teatrologia: la Relazione Teatrale, quella tra spettatore ed attore, il rapporto cruciale tra produzione e ricezione. Artaud e “i soliti noti” della rivoluzione moderna a teatro, Stanislavskij, Mejerchol’d ed il grande Jerzy Grotowski ne declinarono i modi raggiungendo frontiere a cui la ricerca scientifica arriverà solo dopo cinquant’anni, assolvendo meravigliosamente al ruolo d’avanguardia riservato all’arte. I maestri della scena sapevano, i loro corpi sapevano quello che la scienza avrebbe poi confermato con la risonanza magnetica. Sapevano molto sui processi emotivi, su quelli empatici e cinestetici (numerose le collaborazioni con psicologi e fisiologi loro contemporanei, uno fra tutti Wiliam James); sapevano molto sulla necessità di considerare il corpo e la mente come un’unità inscindibile. Nelle parole citate di Artaud sono racchiuse in nuce 50 anni di ricerca teatrale e scientifica: in esse risiede l’affascinante idea che azione e percezione dell’azione siano intrinsecamente legate, tanto da coinvolgere le stesse strutture e porzioni anatomiche del cervello, tanto da arrivare a poter dire che il percepire l’azione di un’altra persona (osservarla od udirla) equivalga ad una sua esecuzione virtuale, ad una simulazione. La stessa affascinante idea che le ricerche sui neuroni mirror del Laboratorio di Neurofisiologia dell’Università di Parma hanno empiricamente dimostrato essere una realtà. Artaud diceva che a teatro osservare un gesto ha lo stesso valore dell’eseguirlo; Grotowski parlava di osmosi, di provocazione all’azione ed alla collaborazione tra performer e pubblico; Rizzolatti ed i suoi collaboratori ci dicono, come emerso nell’intervista rilasciata a Nicola Gandolfi, che la produzione d’azioni e la loro percezione-comprensione implicano l’attività elettrica degli stessi neuroni (mirror), che il legame tra azione-percezione-comprensione è vero, non solo a teatro. E’ vero per l’Uomo in generale, per tutta la sua vita cognitiva.
La simulazione incarnata è il livello funzionale del sistema neurale mirror, esprime il meccanismo non conscio, automatico e pre-linguistico con cui l’osservatore si rapporta all’agente e ne comprende gli atti. Essa è verosimilmente la principale strategia di comprensione che l’uomo possiede (ma certo non l’unica): osservare un’azione equivale a ricrearla internamente, simularla nella proprio corpo, per capirla. Il valore evolutivo dei fenomeni spettacolari, in cui la simulazione è certo la dimensione precipua, acquista alla luce di queste affermazioni forza e realtà anatomica: gli eventi spettacolari incentrati sul “come se”, sulla costruzione del modo congiuntivo sono fatti di simulazione così come lo sono le menti di chi li interpreta e di chi vi assiste. Il Teatro appare come una palestra molto efficace, in cui la simulazione incarnata si fa azione in scena e partecipazione in sala. Anche per questo il teatro non è un “organo vestigiale”, non è un residuo spettacolare di precedenti espressioni rituali sacrali. La scena è anzi il luogo in cui il meccanismo mirror trova la sua dimostrazione più potente ed il suo dispiegamento più efficace. Il corpo-mente del performer in scena esposto allo sguardo del corpo-mente dello spettatore in platea amplifica l’effetto della simulazione incarnata. La forza del Teatro sta tutta qui: nella sua potente fascinazione, nella sua provocazione, non solo morale ma anche fisica, che genera grazie all’esposizione di corpi e menti che agiscono, non mediati, vivi ed organici. Il Teatro rappresenta per l’Uomo la piena ed appagante realizzazione del suo essere simulativo, da sempre. Almeno da quando il Primate Amletico ha iniziato a comprendere attraverso la simulazione incarnata ed a comunicare attraverso al simulazione in scena.

Le ricerche del laboratorio parmigiano sono state (e saranno) di forte stimolo per le discipline scenologiche che si occupano dello spettacolo da un punto di vista evolutivo. Esse trovano in queste ed in altre scoperte scientifiche possibili conferme alle proprie ipotesi. Antropologi dello Spettacolo, studiosi di Performance Studies, ricercatori di Etnoscenologia, Antropologi del Teatro: sono in tanti ad interrogarsi sul bisogno di spettacolarità, sull’istinto teatrale umano, sugli aspetti di lunga durata e geneticamente determinati nelle espressioni spettacolari di società distanti tra loro nello spazio e nel tempo. Le comunanze e le condivisioni a questo livello d’analisi scendendo necessariamente nei corpi-mente dei pubblici e dei performer. Per questo le Scienze Teatrali devono interrogare le Scienze della Vita e le Neuroscienze: il perché dello spettacolo, il perchè si fa o si va a teatro è rintracciabile nei suoi come, nei suoi processi di produzione e ricezione. Processi che hanno dei dove specifici, delle localizzazioni anatomiche. Le ricerche di neurofisiologia forniscono dei dove e dei come al teatro, agli scenologi poi spetta il compito di elaborare dei solidi perché.

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