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venerdì 8 febbraio 2008

Per la TerraDiMai: seconda stella a destra, al civico Due

Nell’epoca attuale della comunicazione di massa e dell’impresa culturale, il grande ed il piccolo schermo sono spesso gli spazi virtuali deputati alla trasmissione delle tradizioni, delle leggende, del folklore e della fantasia occidentali. Walt Disney ha fatto negli anni incetta di fiabe e racconti, spesso mutandone e traslandone lo spirito, quasi sempre facendone una cosa nuova e diversa: un prodotto. Le fiabe sono diventate merce, oggetti commerciabile nella misura in cui “impacchettati” in funzione di un target preciso, il più potente ed allettante fra i gruppi d’acquisto: i bambini. Così, mettendo in scena Peter Pan, dal Teatro Due ammoniscono: dimenticarsi Walt Disney, la bambinizzazione dell’originale soggetto di Barrie e la sua moralizzazione. Lo spettacolo sarà in scena dal 2 al 9 aprile, ore 21, con la regia di Davide Livermore, il testo tradotto ed elaborato da Luca Fontana, gli attori dello stabile, una decisa direzione poetica. Scordato il cinema, chiuso per un po’ il libro, Peter Pan arriva a teatro e da subito stabilisce le sue regole: niente cravatta, tante sorprese, molto gioco. A teatro come sull’Isola di Mai si sospende l’incredulità, si sceglie di abbandonarsi alla fantasia, al “come se”, al gioco in scena e della scena, in sala e sul palco.
Se Peter Pan è un inno alla giovinezza ed al gioco, alla gaudente e spensierata infanzia, egli è anche e soprattutto una “mitologia diffusa”, scrive Fontana, che parla a tutti, tutti i bambini di oggi e di ieri. Come ogni mito Peter Pan ha la forza dell’universale e della sua traduzione in immagini, in storia e personaggi: la perdita del corpo bambino, della vita in cortile ed in cameretta, dell’infanzia libera e leggera; Peter Pan ci parla del lutto che per il resto delle nostre vite cercheremo di elaborare: la perdita del bambino che siamo stati. Il mito dell’eterna giovinezza qualcuno lo insegue ricorrendo alla chirurgia estetica, qualcuno sublimandolo nella vita dei propri figli (schiere di mamme-amiche), qualcuno facendo l’attore, qualcuno decidendo di essere Peter Pan: un semidio che non invecchia, che vive in un’isola che non c’è mai stata, che lotta contro i pirati, che è amico delle fate e vola. Ma dietro la vitalità di Peter Pan e la sua luccicante Terra di Mai c’è un tempo sospeso, c’è la solitudine, c’è in fondo la non-vita (lo si dica piano…la morte). Il cattivo ha il corpo mutilato di Capitan Uncino, un despota adulto che ha una parte bambina ancora salda nonostante cerchi di negarlo e di ucciderla dandola in pasto ai pescecani; con la passione per i soprannomi e con una paura incredibile di un coccodrillo che fa tic-tac, con anzi il terrore negli occhi al solo sentire un lieve tic-tac-tic-tac…il tempo, il suo scorrere inesorabile.
Per tutti i bambini, di ieri e di oggi, sul palco ed in platea, la scena di Livermore non abbandona mai la dimensione del gioco: dai suoni ai voli, dalle musiche alle trasformazioni della pedana-nave-coccodrillo-casa; senza mai perdere l’ironia, sfruttando molti riferimenti attuali, per far felici anche i grandi, di oggi e di domani. In scena un trio esegue musiche originali dal vivo, mentre al “tavolo dei suoni” di volta in volta si creano, come in una fucina-cucina dell’udito, i rumori e con essi gli spazi: la fantasia dei suoni e delle azioni crea la scena, quella piccola e compatta delle camerette dei bambini, quella in bilico, ondeggiante di un galeone, quella fantasmagorica e inafferrabile dell’Isola di Mai. Tutti non-luoghi e non-tempi che esistono solo in funzione di qualcuno che li vive e li attraversa, che li fa risuonare e li agisce: esattamente come il Teatro, dove la distanza tra un’avventura e l’altra è pochissima e dove sono i corpi vivi e vitali di attori e pubblici a costruire la realtà dello spazio-tempo. Forse il segreto dell’eterna giovinezza sta proprio qui, nell’essere attore-artista o pubblico, ma di quelli che invecchiano senza diventare grandi e sono bersagli mobili per le ricerche di mercato.

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