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mercoledì 12 marzo 2008

LATELLA LE DONNE LE CAPISCE

ARTICOLO PUBBLICATO SUL NUMERO DI APRILE 08 DE IL MUCCHIO SELVAGGIO

Titolo: Le lacrime amare di Petra Von Kant
Autore: Rainer Werner Fassbinder
Regia: Antonio Latella
Compagnia/Produzione: Teatro Stabile dell’Umbria e Teatro Stabile di Torino
Cast: Con Laura Marinoni, Silvia Ajelli, Cinzia Spanò, Sabrina Jorio, Stefania Troise, Barbara Schroer, gli animatori d'ombre Massimo Arbarello e Sebastiano Di Bella - - scene e costumi di Annelise Zaccheria; disegno luci di Giorgio Cervesi Ripa; suono di Franco Visioli

Avendo ancora davanti agli occhi l’ancestrale, animalesca, potentissima femminilità della Medea con cui Antonio Latella, regista italiano leader della ricerca contemporanea, ha ottenuto il prestigioso Premio Ubu 2007 come Miglior Spettacolo, l’enorme statua nuda che campeggia al centro del palcoscenico del suo Le lacrime amare di Petra Von Kant acquista ancora più forza scenica. Come se i due lavori, molto vicini nel tempo di realizzazione, partecipassero non solo della stessa tematica, il femminile tragico, ma anche dello stesso corpo di donna, prima o dopo Cristo sempre fatto di carne, seni, lacrime. In questa sua fatica teatrale, già da due anni in tournè con un grande successo di pubblico e critica, il regista napoletano umbro d’adozione ha di nuovo spogliato il femminino, messo a nudo le sue relazioni e la sua identità, liberandolo dai vezzi e dalle crinoline sociali e culturali, facendo emergere le complicazioni economiche, di classe, di status implicate in ogni rapporto. E lo ha fatto grazie ad un soggetto creato più di vent’anni fa dal genio tormentato di Fassbinder, cineasta tedesco che fece dell’omosessualità e dei rapporti amorosi in contesti capitalisti la tematica più ricorrente dei suoi capolavori. Tutto inizia, si diceva, con la scena aperta in cui campeggia al centro la mastodontica e realistica riproduzione di Karin, l’oggetto del desiderio frustrato di Petra Von Kant, nuda, ieratica come solo certe statue doriche di divinità olimpiche riescono ad essere. Ai suoi piedi si snoda la storia, si intrecciano i destini, si ingarbugliano le relazioni fra cinque donne, in una dolorosa escalation di isteria e solitudine. Tra il bianco ed il nero dei minimali costumi di scena, a segnare di volta in volta lo stato di un personaggio, a ricordare ad ogni momento che non c’è spazio per i grigi, non c’è soluzione di colore intermedio in queste drammatiche relazioni tra amanti. L’algida e dura protagonista del dramma, Petra Von Kant, interpretata dalla straordinaria, sofisticata, dosata Laura Marinoni, è da poco uscita dall’ennesima delusione affettiva, dal secondo matrimonio fallito e cerca nella bella e giovane Karin, anch’essa priva di riferimenti maschili solidi nella propria vita, un appiglio, una speranza, un possesso. A costo di legarla a sé solo economicamente, Petra si spende per Karin fino alla follia, all’alcolismo, ottenendo in cambio solo poche e sfuggevoli parole di apprezzamento. Testimone muta, servizievole e palesemente adorante della drammatica e penosa situazione è Marlene, segretaria assistente di Petra, oggetto di vessazioni e occhiate furtive. Sullo sfondo del dramma le ombre dei protagonisti, di figure stilizzate, di oggetti, creati con un mirabile effetto visivo da Massimo Arbarello e Sebastiano Di Bella. Le altre figure femminili sono iconografie, simboli di ruoli che ruotano attorno alla vita di Petra senza poterla veramente penetrare: la figlia è una bambola meccanica parlante di cui Petra non si è mai curata, cresciuta in collegio, trascurata, un giocattolo che non diverte più, che non fa più le bolle di un tempo ma si permette di dire frasi sensate; la madre è un belletto, una ciglia finta, una piuma, la summa della bellezza invecchiata e aggrappata con le unghie finte agli splendori di un tempo; l’amica è un pretesto, un personaggio borghese e appiattito, una donna media che non vede al di là della tesa del suo ampio e bianco copricapo. Eppure c’è in loro un barlume di affetto, che Petra acceccata dall’ossessione per Karin non riesce a scorgere. L’ingombrante femminilità di Karin nella vita di Petra ed in scena (la statua occupa in altezza e in larghezza buona parte dello spazio scenico) è però destinata a finire, smantellata e fatta a pezzi dalla stessa Marlene: cala il fondale e si svelano le quinte e con esse molti dei dolori profondi di una donna come Petra; si corica la statua e la si smembra pezzo a pezzo, cercando di disinnescare il tormento, di smantellarne la forza. L’unica possibile conclusione è il pianto, l’abbandono al dolore: piange Petra rimasta sola; piange Marlene a cui finalmente l’amata si rivolge; piange il fondale, dove piccole figurine stilizzate si bagnano delle lacrime amare di Petra Von Kant.

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