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giovedì 8 maggio 2008

UN PRESENTE CHE NON PASSA

“Un tentativo di prendere l’imprendibile”: così Danio Manfredini, intenso creatore ed interprete, descrive l’intimo percorso tracciato in Al presente, spettacolo premio Ubu nel 1999 di cui è regista ed attore. “Dopo il debutto l’ho portato in giro per 5 anni. Solo ora mi sono trovato a riattraversarlo e l’impronta per me è ancora molto presente” dice Danio. In scena al Teatro Europa, venerdì e sabato alle 21.15, Danio Manfredini si farà testimone, tramite di voci lontane e dolenti, quelle dei pazienti con cui ha a lungo lavorato presso una comunità psichiatrica. “Lo spettacolo è una sorta di autoritratto, nato quando ho lasciato il mio lavoro presso la comunità. Non è però necessariamente un’opera sulla follia. È un viaggio della mente, che si spinge verso la follia sì, ma come amplificazione delle emozioni di ognuno”. La storie dei pazienti, la loro speciale ed acuta sensibilità sono al centro di un’indagine sull’emarginazione e la sofferenza che valica la cosiddetta “diversità” e si nutre di immagini pittoriche. “Sono partito da una serie di scritti e disegni di Giacometti, quelli in cui in un foglio bianco è tracciata un piccola, esile e lunga figura. L’artista diceva che davanti ad un modello, al suo corpo ed alla sua immaginazione, quello che si può cogliere è solo la fuga. In scena ho un manichino che mi riproduce, molto simile alle sue opere scultoree, ed è l’essere che sfugge. Io attore invece sono colui che incarna le figure evocate, impresse nei miei ricordi, nelle emozioni e nelle affezioni.” Manfredini compone un autoritratto a mosaico, in cui dimensioni diverse s’intersecano l’una con l’altra: “c’è il contesto, il contemporaneo; c’è la mia biografia, il mio essere; e poi lo sdoppiamento, in cui mi faccio sia attore che figura scenica.” Con uno sguardo carezzevole ma duramente reale: “la lingua che uso viene dal contesto psichiatrico e per questo è immediata. Nel creare i personaggi ho attinto a riferimenti vivi, i pazienti, e partendo da un concetto imitativo ho poi sviluppato una maschera”. Lontano da qualunque definizione di teatro, sociale, civile, terapeutico, afferrando solo la poesia, appoggiandosi solo alla vita.

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